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Il fianco scoperto

Indice

Parte I

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 15

Capitolo 16

Parte II

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3


Parte I

Capitolo 1

Era il giorno del compleanno di Darrian e Cameron lo malediceva. Senza vergogna, senza ripensamenti. Lo odiava e basta. E come poteva non farlo? Come poteva accettare di festeggiare la vita del suo amico quando questa non c’era più? Lanciò la mano contro la porta d’ingresso del Central Florida Hospital chiedendosi se gli altri fossero arrivati ed entrò. L’atrio lo salutò con il suo odore di gomma e punta dolciastra che faticava sempre a riconoscere. Seguì quella viscida sensazione di familiarità che aveva cominciato a sentire nelle ultime visite e l’umore peggiorò. Un sorriso veloce alla donna che stava all’accettazione e Cameron prese le scale. Pestò forte sul primo gradino, la mano salda sul corrimano. Saliva e impostava un’andatura controllata. Arrivò al piano che dava su un corridoio di porte fredde come lapidi. Puntò la sua, trovandola socchiusa. Lo sguardo fisso sulla camera e il passo sempre più lento. La raggiunse. Poi la sua mano trovò la maniglia, scansò la porta che non aveva peso ed entrò.

L’intensa luce fuori incorniciava il corpo di Darrian di statuario splendore. Il bianco brillava dentro le tre pareti che continuavano a rimanere vuote. Giorni prima avevano attaccato dei poster che Darrian avrebbe gradito, ma si erano presi un rimprovero. La politica dell’ospedale non lo permetteva. Nulla doveva distrarli dal centro della stanza. Come se potesse mai essere possibile.

«Eccoti» Lo salutò Zoe dalla grande finestra che le stava alle spalle. Era seduta. Le braccia incrociate sopra lo schienale e le gambe aperte e strette intorno a quelle della sedia girata. Una posa dura che lei riusciva ad addomesticare con la sua naturale selvaggia bellezza.

«Ciao, Cam» lo salutò Odell che le era vicino, in piedi.

«Ciao ragazzi, scusate il ritardo.»

Il leggero ronzio della macchina al fianco di Darrian chiudeva il giro di benvenuto.

Cameron mosse un passo verso il letto e la luce lo accecò. Allora Zoe recuperò la corda della tapparella, tirò, e la stanza si velò di scuro. La penombra non infastidì la visuale di tiro del pistolero che svettava sul mobile sotto la finestra. Cameron riconobbe l’ex carcerato protagonista della serie TV preferita di Odell e Darrian: un tizio ipertrofico in tuta arancione puntava un cannone in direzione della porta d’ingresso. Una mano scheletrica saliva dalla base e afferrava il grosso piede destro nudo. Cameron aveva abbandonato la serie subito dopo la puntata pilota: un errore che Odell e Darrian gli rinfacciavano spesso.

«Che bella, Odell» disse, rivolgendo alla statuetta la canna dell’indice destro e il cane del pollice alzato.

«Figa, vero? Darrian c’aveva messo gli occhi sopra da un po’. Non è stato facile recuperarla. Dovresti dare un’altra possibilità a Chili Pepper Slaves

Ogni occasione era buona per convincerlo di quella serie, pensò Cameron prima di chiedergli che fine avesse fatto il loro patto. Odell spostò lo sguardo da Cameron a Zoe e poi su Darrian. «L’ho infranto. Ma lui avrebbe capito e approvato. Comunque ci rivedremo insieme tutte le puntate che si è perso.»

Cameron pensò di rimproverarlo. Poi riconobbe la spinta di rabbia e lasciò perdere. Gli sorrise. Di un bianco senza luce. Steso, lì al centro, Darrian aveva iniziato a giocare con le loro vite. Le smontava e rimontava. Odell sembrava non avere nessuna intenzione di lasciare la terra dell’infanzia dove Cameron lo seguiva più volte di quante volesse ammettere. Ma quello che ieri regalava gratitudine, oggi richiamava disprezzo. Cameron pregava in quei giorni di sentir parlare Odell il meno possibile. Sapeva che era sbagliato. Sapeva che era ingiusto. Ma lo stesso non riusciva a smettere di pensare a quanto sé stesso non meritasse di sentire tutto quel disperato candore.

«Il regalo mio e di Marvin è in arrivo.» disse Cameron.

«Grazie, Cam. Grazie, ragazzi» disse Zoe. «È bello avervi qui.»

«Non devi neanche dirlo!» disse Cameron, così vicino dall’interromperla e serio da spazzare lontano la leggerezza che Odell era riuscito a seminare. Poi scattarono in direzione della porta e Cameron provò un certo sollievo. Dal corridoio si sentiva un motivetto di buon compleanno. Un crescendo canoro anticipava l’arrivo di Marvin, che chiuse il ritornello con un balzo sulla soglia. Braccia distese e mani aperte su di loro. Gli occhi spiritati. La bocca stretta intorno all’ultima vocale. Poi si ricompose. Lasciò tutto per un largo sorriso. La schiena dritta e le tonde spalle riempivano lo spazio della porta.

«Chi compie gli anni oggi?»

«Marvin!» lo riprese Zoe e lui tornò a cantare con le gambe divaricate, i pugni chiusi sui fianchi e il mento all’insù. Finì imitando il tono di un tenore e abbassò la testa. Tornò a guardarli con un’espressione seria e aggiunse che la conosceva anche in versione Marilyn Monroe, se proprio ci tenevano.

«La vuoi smettere di fare tutto ‘sto casino? Siamo in un ospedale!»

«Questo vale anche per te, bella» disse lui, abbandonando la posa da marines per un ossequioso inchino. Poi entrò, batté il pugno sulla spalla di Cameron e raggiunse Darrian. «Farò il bravo.»

«Tutto ok?» domandò Cameron.

«Tranquillo, Cam. Il nostro regalo è qui, al sicuro. Come sta il bell’addormentato?» Marvin recuperò dalla tasca posteriore dei jeans una busta bianca da lettere tutta stropicciata. Con il pugno la stirò sul muro per poi abbandonarla al pacato saliscendi sul petto di Darrian.

«Auguri, vecchio mio! Guarda che roba che ti abbiamo fatto!» Marvin attese qualche secondo, da lui ritenuto valido per l’efficacia della scenetta, e riprese il suo show. «Va bene, ti vedo emozionato. L’apro io per te.»

Sguardi rassegnati corsero tra Zoe, Cameron e Odell.

Affondò le dita e tornò con due piccoli pezzi di carta rettangolari. Poi portò la busta davanti agli occhi e si schiarì la gola.

«Gentile Darrian Trayvon, la ringraziamo per la sua cortese candidatura alla Marvin Grooms University, istituto dal quale, teniamo a ricordare, sono uscite le migliori fighe della Florida. Con la presente, la informiamo che lei ha vinto un biglietto in prima fila per il The States Pisses on the World Tour!»

Dalla busta tirò fuori altri biglietti che prese a sventolare in aria. «E ci andiamo tutti, cazzo! Amico mio, è stato un inferno trovarli.»

Cameron osservò lo sguardo rapito di Zoe e Odell. Seguivano le piroette disegnate in aria dal muscoloso braccio di Marvin. Lassù, in alto, dove le dita stringevano tutto il loro coraggio. La promessa di una data alla fine di quell’incubo. Cameron si unì ai due amici. Fissava quei piccoli pezzi di carta e si domandò quanto potesse brillare una speranza nel buio. Poi Marvin pensò bene di rompere la poesia di quel momento con una delle sue uscite. «Altro che quella robaccia arancione, lì sopra!»

«Ehi, attento a come parli, fighetto!» disse Odell, deviando su di lui la linea di tiro del pistolero. «Attento, che ti facciamo il culo.»

Marvin liquidò la minaccia con un sorriso e restò a fissare Odell. 

Cameron desiderò che l’amico proseguisse con il suo fiume di cazzate all’infinito. Fece un immaginario passo indietro sulla scena. Davanti a sé vedeva quattro ragazzi stretti da un’amicizia che li aveva salvati più volte. Ma ora, lì, in quella stanza, avevano a che fare con qualcosa di enorme; di talmente folle che le famiglie difficili, la vita in strada, i pochi soldi e il colore della loro pelle, al confronto sembravano poca cosa. Quasi accettabile.

Spostò lo sgurdo su Zoe. Frugava dentro il suo viso, dove non leggeva altro che la circostanza del momento. Attento a non rivelarsi troppo, continuava a chiedersi se non riuscisse a trovar nulla perché troppo sepolta in profondità oppure se doveva arrendersi all’idea che non vi fosse niente da cercare. Finì con lo sguardo su Darrian: il solo, esclusa forse Zoe, che avrebbe potuto soddisfare quella sua brama di verità.

Zoe lasciò la sedia e si avvicinò alla busta di cartone sul mobile sotto il finestrone. L’aprì e inizio a cercare. Cameron si fece avanti per aiutarla ma lei aveva già fatto. Lasciò la borsa e tornò a guardare il centro della stanza. Sopra i palmi vicini una scatola di cartone color oro.

«Ohi, ohi» disse Marvin sorridendo. Poi Zoe la posizionò sopra il piccolo comodino vicino al letto di Darrian. I quattro lati curvi della scatola uniti in cima nell’incastro di un manico.  Dalle curvature partivano capricciosi riflessi giallastri. Con delicatezza Zoe risolse la combinazione e, aiutando il bocciolo dorato ad aprirsi, tirò fuori una torta pasticcera che metteva in crisi il grigio del tavolino.

«Darrian, amico…» disse Marvin rapito da quell’apparizione, «dammi il permesso di sposare tua sorella.»

«Prima, mangiala» disse Zoe, che era tornata a rovistare nella busta. Un avvertimento, il suo, che loro sapevano essere inutile: i dolci di Zoe erano sempre una bomba.

Tornò da loro con due numeri in cera azzurra. Posizionò le candeline sulla torta, le accese e piccole fiammelle presero a ballarci sopra. «Be’, fratellone… facciamo che questa volta le soffiamo noi per te, che dici? Vai ragazzi, tutti insieme!»

Cameron immaginò una piccola tempesta e il viso di Darrian imbrattato di buonissima crema. Soffocò una risata in uno sbuffo. Seguì la vergogna e gli occhi a rana. Ma non aveva attirato l’attenzione di nessuno. Allora si ricompose, rimproverandosi di come riusciva sempre a mettersi in ridicolo.

Soffiarono, con Odell che non prese bene il tempo e si unì tardi. Poi Zoe allungò a tutti forchette, piattini di plastica bianca e un coltello che affondò sul tetto di frutta rivelando uno spugnoso cuore marrone rossastro.

«Ecco qua, per il festeggiato!» disse posizionando il piattino con il primo pezzo di torta sul comodino. Poi continuò a tagliare e a distribuire.

«Ok, mmm… ora… lo posso dire…» in piedi, con la schiena appoggiata al muro, Marvin si impegnava a tenere il piatto sulla mano. La lingua riuscì a farsi strada per una nuova proposta di matrimonio.

«Niente può battere una torta fatta con l’amore di una sorella» disse Odell.

Seguì il silenzio, rotto da qualche mugolio di piacere.

«E quella?» domandò Marvin indicando la fetta lasciata da Zoe vicino al festeggiato.

«Oh, ma sei senza fondo!» lo riprese Odell.

«Ha parlato il magrolino» disse Marvin prima di dedicargli una sguaiata leccata della forchetta.

«Sta’ zitto» disse Odell.

«Odell, Odell… guarda che ti faccio un favore.»

«La finite voi due? Quella la lasciamo per l’infermiera Dorothy. È una tipa a posto. Mi piace che ci sia lei vicino a mio fratello.»

E lì Cameron realizzò che si erano persi una parte del rito: avevano soffiato senza esprimere un desiderio. L’occasione di sentir parlare il cuore di uno di loro. D’improvviso arrivò la voglia di rimettere tutto in ordine. Di compiere uno sgangherato viaggio nel tempo rattoppando velocemente la torta e impilando i piattini dentro credenze fantasma. Di rimproverare Marvin e Odell e fermare il loro appetito. Allora, se poteva godere fino in fondo di quella fantasia, che a parlare fosse proprio Zoe. Che a esprimere il desiderio fosse lei, così capace di accudirlo e dargli luce.

Lei richiuse la cupola intorno alla fetta di torta. Recuperò dalla borsa una penna e vi incise sopra la scritta “per Dorothy”. Aggiunse un grazie e una firma. Poi radunò piattini e forchette e, dopo aver buttato tutto nel cestino, domandò a chi andasse un caffè.

Capitolo 2

Il bar dell’ospedale era un brulicare di facce e rumori e il tavolo in fondo alla sala di nuovo vuoto. Quella zona aveva perso i favori del tramonto e ora galleggiava in un buio intenso.

Trovavano posto al bar quasi sempre lì. Una coincidenza che, una volta di troppo, Cameron aveva pensato celasse l’intento di una qualche forza superiore, rivelatasi per voce di Marvin: “Ragazzi, non mi stupirei se un giorno trovassimo un cartellino “riservato” con su scritto i nostri nomi”. Un sinistro lusso di cui avrebbero fatto volentieri a meno. Raggiunsero il tavolino, presero posto a sedere e ordinarono quattro caffè.

Il cameriere tornò e l’aroma riempì l’aria.

Zoe intrecciò le dita intorno al bicchiere. Lo sguardo perso sul caffè.

«Non ce la faccio più» disse al cerchio sotto di lei. Il tono perentorio. La dura Zoe, la loro Zoe che mai abbassava la guardia, sembrava ora fatta di vetro.

Cameron non fiatò e per lei immobilizzò tutto il corpo.

Odell si pulì veloce la schiuma del macchiato che gli era rimasta sulla punta del naso.

Zoe alzò la testa e Cameron dovette cercare il suo sguardo. Era tornata da chissà dove e per prima cosa aveva guardato Odell. Il tempo di formulare quel pensiero e lei era già da un’altra parte, di nuovo sul bicchiere. Cameron non poté evitare di provare un pizzico d’invidia per l’amico. Frutto del caso o meno, era andata così. Ma forse poteva star tranquillo. Poteva ricordare che Odell aveva avuto un piccolo incidente con il caffè e forse Zoe gli aveva dato il tempo di riprendersi. Poteva, ma era meglio che l’ascoltasse, vista la prima frase persa che non avrebbe certo chiesto di ripetere.

«Mia mamma viene a trovarlo sempre meno. Passa tutto il giorno a letto. E il più delle volte al buio.» Teneva la testa bassa come spinta da una mano invisibile. «Quando non è a dormire sul divano mi chiede di parlarle dalla porta socchiusa e mi risponde sbiascicando da dentro il piumone.»

La mano spingeva più forte e in viso le si leggeva quanto quella sensazione di libro aperto fosse nuova anche per lei.

«Mio padre si sforza, lo vedo. Prova a nascondermelo, ma è disperato. Io non ce la faccio più a tornare a casa. Non riesco più a sedermi a tavola.»

Prese a strofinare il bicchiere.

«E la cosa peggiore è che tutto questo sta diventando normale.»

Lo sguardo di Cameron si spostò dietro di lei. Due signori che aveva stimato sulla cinquantina continuavano a parlare tranquilli, i visi rilassati. Li vedeva a rallentatore e si domandò come potessero non subire l’epicentro di paura che si era appena aperto al centro del loro tavolo. E arrivò la spietata considerazione che lo stesso poteva valere al contrario. L’ “Ehi” di Marvin precipitò nell’oblio e Cameron si ritrovò negli sguardi spaventati dei suoi due amici. Zoe tirò indietro i capelli con forza. Troppa, a giudicare dalla smorfia. Li legò con l’elastico nero che era solita tenere alto fin sopra il gomito.

«Conoscete i Black Breathe Like You?» domandò Zoe.

«Ho letto di loro tempo fa da qualche parte su…» fece appena in tempo a dire Marvin prima di essere interrotto.

«L’aggressione a quel ragazzino!» Odell non esitava a intervenire e fermare gli altri quando venivano toccati temi che stuzzicavano la sua curiosità. Più per passione, che per sfoggio d’intelligenza. Almeno così era quando stava con loro. Non erano mancate le volte in cui a scuola e fuori aveva dato velenoso sfoggio del suo acume. Con risultati spesso disastrosi in termini di popolarità.

«I BBLY: il movimento per la difesa dei diritti dei neri» continuò Odell.

«Esatto» disse Zoe, «li ho cercati e conosciuti.»

Cameron la fissava pensando a lei che non aveva trovato riparo in lui, che corresse subito in “loro”, ma al di fuori. Da sconosciuti. Da sola.

«Gli ho raccontato di noi. Di quello che è successo a Darrian… della mia famiglia, di me. Ho trovato storie come la mia, persone segnate da esperienze simili… e conforto.»

L’ultima parola le era uscita sottovoce, un fiato. Ma non così debole, come si leggeva nei suoi occhi sgranati.

«Mi dispiace avervelo tenuto nascosto.»

Cameron le vedeva in faccia quel dispiacere con chiarezza. Era come se, fili alla mano, stesse disinnescando una bomba. D’altronde in quel momento in ballo c’era la fiducia. E quello che lei stava mettendo sul piatto era un tradimento. Nella dovuta misura, certo. Giustificabile, per carità. Ma di quello si trattava.

In quell’istante la coppia di signori alle spalle di Zoe lasciò il tavolo e Cameron ci fantasticò sopra, come diretta conseguenza della tensione rilasciata da quel primo filo tagliato.

Intanto Zoe continuava a torturare le altre pericolose arterie colorate.

«Mi hanno dato forza… mi stavo come… come spegnendo.»

Zack! Un altro filo.

«E con loro ho pensato a qualcosa.»

Zack!

E la bomba esplose prima sulle facce di Odell e Marvin e poi di riflesso sulla stessa Zoe.

Passare da “li ho conosciuti” a “ho elaborato con loro un piano” presupponeva un considerevole intervallo di tempo vissuto lontano da loro, per non parlare dell’esclusione. Ma nessuno si sentì di obiettare. Era la sorella di Darrian e questo le dava certi tristi privilegi.

Cameron abbassò lo sguardo sui loro bicchieri del caffè, fermi e vecchi come fossili.

«Volevo tenervelo nascosto. Risparmiarvi questo mio tormento…»

Sciogliere i nodi sulla corda di quel discorso le procurava fatica. «Ma così facendo sentivo anche di far del male a voi e a me stessa.»

«Di cosa si tratta?» chiese Odell.

«Una dimostrazione pacifica» disse lei con prontezza, «l’abbiamo studiata bene. Loro hanno esperienza in questo genere di cose.»

Poi Zoe si prese una pausa e vide arrivare la compassione. Troppo spesso, in quel periodo, si affacciava nel viso di chi le stava davanti, tingendolo di vitrea compunzione. Come risposta, lei distoglieva lo sguardo o troncava il discorso. Peggio era quando, invece di ricorrere all’indifferenza, arrivava come questa volta a giustificarsi. Subito dopo provava una gran vergogna.

«So cosa state pensando» disse con un tono che la diede vinta a quelle loro facce, «e vi dico che ho accettato tutto, che non è un atto di disperazione… che voglio fare qualcosa, cazzo!»

Con quella parolaccia raddrizzò le loro schiene. Zoe non era il tipo da dirne molte.

«Con voi o senza di voi» aggiunse e la compassione indietreggiò dalle facce dei suoi amici salutandola con un arrivederci. «Ma io sono qui. E vi sto raccontando tutto questo perché tengo a voi.»

«E come funziona?» domandò Marvin.

«Mi hanno consigliato di sfruttare la loro pausa al King Diner. Non è stato difficile farmi dire tutto da Betty.»

Cameron non faticava a crederlo. Vedeva con chiarezza quella scena nella sua mente. Zoe che seguiva la cameriera più svampita del King nel vicolo dietro per una pausa sigaretta. Che si metteva in posa. Schiena e gamba piegata contro il muro. L’avambraccio intorno al busto e la mano sotto la ciminiera destra. Zoe che seguiva la voce stridula di Betty, ricambiandola con una maschera dai bordi invisibili carica di innocenza e pazienza. Zoe brillava di quel talento. Lei riusciva a scorgere nelle persone una serratura, per quanto minuscola, e avvicinava una chiave. La spingeva dentro e tornava indietro con quel “clack” in premio. Quando ci si metteva d’impegno le veniva così naturale che lui, sempre così immobile e impacciato, ne rimaneva ogni volta incantato.

Gli venne di complimentarsi ma si fermò.

«E poi?» chiese Odell.

«I Black Breathe Like You arrivano e li aspettiamo. Hanno i cartelloni e i megafoni. Riprenderemo tutto e lo metteremo sui social. È facile che faccia notizia e cominci a girare. Loro hanno dei contatti con la stampa.»

Quando partiva in quarta così era impossibile fermarla. Quante volte Cameron l’aveva visto succedere, tutte le volte ammirato da quella forza?

Darrian è stato ingiustamente pestato a sangue da due poliziotti una sera mentre tornava a casa tranquillo, e ora è in coma con il rischio di non risvegliarsi mai più!, aveva urlato tante volte a se stesso sperando in uno scossone interiore. Guardava Zoe e si domandava cos’altro lui avesse fatto se non scegliere sempre la via del silenzio, barricandosi, forse fin troppo, dietro l’elegante codardia insita in quella condotta. Almeno lei stava provando a fare qualcosa. Lui cosa aveva da proporre? Mentre lei parlava con le guance rosse dallo sforzo, a lui non rimaneva che chiedere, interessarsi. Rompere quell’abitudine al silenzio che di fronte alle parole di Zoe diventava sempre più insopportabile, al punto da non accettarlo nemmeno per ascoltarla. Attento a non finire per interromperla nella disperata ricerca di voler dimostrare qualcosa a lei e a sé stesso.

Marvin prese il bicchiere vuoto del caffè e lo alzò mostrando un sorriso nervoso.

«Non ti lascio sola» disse e puntò il viso in direzione dell’ingresso del bar, «altrimenti poi chi lo sente quello là?»

Odell alzò il suo bicchiere, poi arrivò quello di Zoe. Per ultimo, senza dire una parola, si unì Cameron.

Capitolo 3

Giorni, mesi, anni. Sempre a pensare. Sempre a rimuginare e a ripetersi che il giorno dopo sarebbe arrivata un’occasione migliore. Poi, di colpo, aveva deciso di farsi avanti. Non sapeva darsi una risposta. In passato le occasioni per dichiararsi non erano di certo mancate e Cameron sapeva bene che faccia aveva il nemico e come agiva. Così attento a scorgere nei pomeriggi di tutti loro insieme momenti perfetti e altrettanto bravo a lasciarli scivolare via. Basta. Contorte strategie strisciavano dentro la testa e intorno al collo. Ma lui non era più lui, e forte di questa nuova spinta, vista ancora con più sospetto che orgoglio, scacciò gli antichi pensieri e mosse il primo vero passo davanti allo specchio. Davanti al riflesso di qualcosa che non voleva vedere più. Gli occhi affusolati, “a serpente”, come li chiamava Marvin. I capelli a spazzola, tutti alla stessa altezza. La firma di una cicatrice sulla tempia sinistra, per quella gara di skate ai curvoni con Odell. Gli occhi che non avevano mai incrociato quelli del mondo. Lui. La faccia del nemico. E fissandolo gli dichiarò guerra.

Iniziò comprando dei vestiti nuovi e arrivò il fiume di battutine di Marvin, che lasciò fare per il ritorno di attenzione. Ci prese gusto e i cambiamenti da pochi divennero molti. Non solo esteriori. Tante piccole cose, come il mostrare più sicurezza nel farle i complimenti. A volte andavano a segno e il viso di Zoe era la più grande delle ricompense. Per le altre, pareva riuscire, provando una certa sorpresa e orgoglio, a lasciarsele dietro senza pensarci troppo. Strategia e sicurezza in se stesso andavano a braccetto e sembravano man mano acquisire un’andatura disinvolta.

Poi, come per una mossa crudele del destino, quelle tante occasioni erano svanite.
Odell, il primo tra loro, aveva preso la macchina, e i pomeriggi a piedi per Wrinkly Avenue e le partitelle al campetto avevano lasciato il posto ai lunghi giri in auto alla scoperta del vasto dominio del grande lago a nord, che ai loro occhi eccitati disegnava da sempre il confine dell’orizzonte. Ogni momento era buono per infilarsi stretti lì dentro e puntare il volante verso quel libero scorrazzare, insieme a tutta l’emozione che smuoveva. Dopo una breve timorosa parentesi, Odell aveva girato le spalle al divano e alle lunghe ore in camera davanti al computer e ora sembrava vestire i panni di uno smanioso esploratore. Marvin, che spesso sedeva davanti lato passeggero, anche a costo di intavolare lunghe discussioni, sfiorava con la testa il tettuccio e lamentava di avere le ginocchia a pochi centimetri dalla bocca. Cameron aveva lottato con timida strategia ma non era riuscito a spuntarla. Ormai avevano una loro formazione fissa lì dentro. Odell e Marvin seduti davanti, con Marvin che, quando non spintonava Odell, starnazzava fuori dal finestrino le sue sentenze e battutine. Lui, Darrian e Zoe occupavano il sedile dietro. In questo preciso ordine. La macchina aveva su Zoe un effetto rilassante. Spesso Cameron l’aveva vista canticchiare in duetto con la radio, la testa tra le lucide braccia ancorate al poggiatesta. Darrian soffriva le retrovie e si piazzava sempre tra lui e Zoe per buttarsi nello spazio tra i sedili, là davanti, tra Marvin e Odell, e più oltre, dove correva il vero divertimento. In quella parte di mondo che Cameron lasciava volentieri a loro. Perché, si chiedeva, non potevano mettersi un momento tutti da parte? Perché, per un giorno che fosse uno, non tornavano a fare qualcosa a piedi? Perché, per una volta, per qualcosa di naturale e non sospetto, lui e Zoe non sarebbero dovuti restare a terra accettando che i bambini quel giorno se ne andassero via da soli? Le domande e i pensieri rimbalzavano nello stretto spazio dell’abitacolo che, per come stavano le cose, poteva farsi piccolo quanto un barattolo. La tanto cercata intimità con Zoe batteva i pugni nel bagagliaio e lui poteva solo attendere la fine della gita, che lo stesso non lasciava spazio a grandi manovre. Per non contare che lei aveva già chi, per forza di cose, l’avrebbe sempre accompagnata fino alla porta di casa.

Ma non si scoraggiò e un pomeriggio, mentre si avvicinavano al lungolago, Cameron decise di dichiararsi. Il tramonto non si sarebbe portato via un altro inutile giorno.

Capitolo 4

Il giorno dell’arrivo dei Food Trucker. La lunga carovana di camioncini piazzava le eccentriche fiancate con i menù e tutta Wrinkly Hill si trasferiva per due giorni sul lungolago. Famiglie, amici, coppie di fidanzati e loro cinque in testa a tutti. Il sole picchiava forte. I bambini scorrazzavano tra l’erba e i tavoli mentre i genitori continuavano a lisciare le loro piccole schiene e a riprenderli. Non che gli adulti fossero più tranquilli, tra file scomposte e urla. Tutto tollerabile. Tutto sempre godibile, visto il premio finale del buon cibo, che Odell e Marvin celebravano ogni anno con gare di abbuffate. Ma non quella volta. Nelle altre edizioni se l’erano goduta con più giri della carovana e pisolini sulla sponda del lago. Questa volta no. Ed era Marvin a richiamarli all’ordine. Ripeteva di stare calmi, di non perdere il controllo, ma gli altri non riuscivano troppo a prenderlo sul serio. Cameron era partito all’attacco offrendo a Zoe un hamburger speziato e lei gli aveva rivolto un largo sorriso. Lui era stato attento a non farsi vedere dagli altri, sentendosi per questo ridicolo. Quel giorno si sarebbe dichiarato e quel genere di preoccupazioni non avrebbero dovuto toccarlo. Ma Marvin sapeva alle volte essere davvero crudele e, se anche la sua attenzione sembrava in quel momento tutta rivolta a quello che stava per mettere in bocca, c’era da restare vigili.

«Prima ce li giriamo tutti e diamo un’occhiata generale» disse Marvin. Quindi si divisero i camioncini, passarono in rassegna le strampalate fiancate con i menù e raggiunsero carichi di cibo il tavolo trovato da Darrian. Condivisero quella prima partenza sui social e iniziarono a darci dentro. Le loro mani stringevano cartocci unti e spiedini brillanti per l’olio. Le dita di Marvin intorno a un hamburger di pane viola. Tutto condito con odori che montavano ancora di più la fame.

Arrivarono gli assaggi reciproci e Odell aveva finito per offrire meno degli altri, tenendosi tutta la sua solita esagerata dose di peperoncino. Poi si lanciarono nell’immancabile classifica a chi aveva scelto il piatto migliore e gli occhi stanchi e accondiscendenti di Zoe, Darrian e Cameron assistettero a un estenuante pari merito tra Marvin e Odell.

Allora Marvin, tra i risucchi delle dita unte in bocca, aveva rivisto la sua posizione a trattenersi e proposto un nuovo giro di assaggi incontrando la disapprovazione di Zoe. Pattuirono per un gelato sul lungolago e si avviarono.
Le 3 arrivarono subito e ritornarono verso il centro. Erano stati bravi a non esagerare. L’escape room richiedeva tutta la loro concentrazione e lucidità. Era stato Darrian a proporla la prima volta. Avevano prenotato, erano andati e fissato lo stesso giorno un altro giro. Ne erano seguiti altri. Quel pomeriggio avrebbero sfidato Asylum, la più difficile tra le stanze. Per Cameron significava una nuova costrizione ma non si perse d’animo. Oggi niente si sarebbe messo in mezzo tra lui e Zoe. Superarono il monumento ai veterani e arrivarono su South Oak Avenue. Sotto l’insegna “Live Escape Game”

Marvin, in testa al gruppo, si girò a guardarli. «Mi raccomando impegnatevi, che non voglio fare figuracce» disse e si beccò una fila di scappellotti e offese. Si riparò con il braccio destro davanti al viso e li liquidò con due veloci okay. Poi spinse sulla porta e arrivò lo squittio di benvenuto di Kathy. Kathy, dello staff, partì con un breve misterioso preambolo riguardo alla prova che li attendeva insieme alla comunicazione delle regole. Sequestrò tutti i cellulari e porse loro delle camicie di forza. Le indossarono e la ragazza li accompagnò davanti a un pannello che per grafica ricordava la camera imbottita di un manicomio.

«Verrà postata sui social, se vi fa piacere» li avvisò.
«Certo» disse Zoe, «un bel ricordo… Marv, vuoi stare un po’ fermo?»
Marvin, con un’espressione soddisfatta e i piedi fermi a terra, ruotava il busto da una parte all’altra, come una trottola. Spostò lo sguardo da Zoe a Kathy.
«Bella! Me la posso portare a casa?»
«Non posso lasciarvela.»
«Dai, Kathy… per il mio amico Odell servirebbe una XXX…» disse, fermandosi con espressione assorta. «XXL, sì. Cinque X andranno bene!» riprese sorridendole.
«Non posso davvero.»
«Vuoi prenderle, Marv? Ho ancora le gambe libere» disse Odell.
«Sei fortunato, ciccio. Non posso farti le corna da dietro.»
«Ora ti mollo un calcio.»
«La finite voi due?» urlò Zoe, e Marvin scattò all’indietro urtando il pannello che iniziò ad oscillare. Kathy lo afferrò per il bordo appena in tempo.
«Kathy, lascia perdere questi due e continua» sentenziò stanca Zoe.
«Quanta energia avete!» disse Kathy, i piccoli occhi spalancati. «Tenetela per la room. Vi servirà!» aggiunse insieme a un doppio veloce mugolio.
Fatta la foto e tolte le camicie, arrivò il momento di scegliere il volontario per la cella. Kathy tornò a raccontare il grado di difficoltà di Asylum. Un’escape room dentro l’escape room che, come prima prova, richiedeva la liberazione di un membro del gruppo. Kathy chiamò un volontario e tutti indicarono Cameron.
«Sei il più cagasotto, fai troppo ridere quando hai paura.»
«Quanto sei simpatico, Marv» disse Cameron.
«Sono una vera sagoma.»
Cameron guardò Zoe e non aggiunse altro.
«Bravo!» si complimentò Kathy con un velocissimo muto doppio applauso. Poi portò gli occhietti sgranati da Cameron agli altri. «Bravi tutti!» aggiunse. «Bene, ora io mi prendo Cameron e voi aspettate belli tranquilli, lì, sul divano» disse e tornò a guardare Cameron che lasciava gli altri. La raggiunse e lei lo salutò con un sorriso. Poi Kathy tornò a guardare avanti. «Cameron, saluta i tuoi amici» disse e lui portò la mano destra vicino al petto. Un saluto molle del palmo.
Il viso tra il contrariato e la vittima sacrificale. Loro quattro gli sorridevano. Marvin alzò dal pugno destro il pollice. La ragazza commentò con un mugolio e un leggero saliscendi della testa. Poi girò su se stessa e proseguì a passo spedito per il corridoio che partiva alla destra del divano. «Seguimi» comandò a Cameron e lui le si mise alle spalle. Là davanti arrivò una risatina.

«Siete proprio un gruppetto simpatico» commentò Kathy senza girarsi.
Simpaticissimi, pensò Cameron.

Pochi minuti e raggiunsero una piccola porta. Una tavola di legno con due spessi cardini di ferro sporgenti. Sembrava uscita da un mondo fantasy, pensò Cameron. La superarono ed entrarono in una grande stanza. Cameron notò le pareti dipinte di rosso. Contò una sedia, un’altra porta più in fondo, un cassettone di legno e lo scheletro grigio di una branda appoggiata in verticale sulla parete. Il materasso curvo al centro, abbandonato a terra. Ma non trovò il tempo di indagare oltre che Kathy lo chiamò. Aveva aperto l’altra porta. La raggiunse e lei la spalancò. Dava su un pianeta buio. Cameron lasciò il nero per lei.
«E ora?» Non riuscì a evitare la domanda.
«Ora vengono i tuoi amici a salvarti» aveva risposto Kathy con un sorriso fermo. «Su, su» bacchettò lei e lo spinse da dietro la schiena con una mano. Cameron scivolò dentro il nero che divenne eterno. Arrivò un doppio giro di chiavi alle spalle. «Tutto bene?» domandò Kathy.
«Sì!» urlò Cameron. Stava per aggiungere che era appena entrato ma si trattenne. Seguirono due colpi sulla porta, uno squillante “io vado”, e restò solo. Fuori da tutto. Sempre ancora lontano da Zoe. Si era girato verso il saluto di Kathy. Fissava quel pozzo senza fondo che sapeva contenere la porta. Poi scostò lo sguardo di lato. Lì dove doveva esserci un muro, disse a se stesso, mortificando poi quel pensiero. Continuò a scivolare con gli occhi sul muro invisibile fin dove poteva immaginare la presenza di un angolo. Guardò intorno a sé fino alla stima di un giro completo. Poi puntò in basso e serrò le mandibole. Non sapeva perché, ma non voleva alzare la testa. Arrivò il pensiero assurdo che se lo avesse fatto sarebbe morto d’infarto. Si diede dello sciocco, del cretino, ma non servì a nulla. Gli occhi ancora fissi a terra. Scaricò il peso sui piedi e poi alzò il destro che riportò subito giù. Ben piantato, gli sembrava di star accarezzando il suolo così bene, di sentirlo così liscio, di percepirne l’essenza, come se al posto dei piedi avesse le mani. Poi le spalle si fecero più pesanti e sobbalzare portò quasi un dolore vero. La voce di Kathy gracchiò chiedendo se andasse tutto bene. Il tono calmo fece rimpiangere a Cameron l’atteggiamento arrogante di poco prima. Rispose con un “Ok” che suonò come un’esplosione. Lei aggiunse un “bene” e sparì. Cameron la rimpianse per poi subito ringraziarla. Senza rendersene conto, ora lui stava guardando in alto ed era ancora vivo. Si diede ancora dello stupido e si incazzò. Era così che voleva farsi vedere da Zoe quando lo avrebbero tirato fuori? Voleva vedere una faccia stravolta dai fantasmi o, peggio, un ridicolo piccoletto affamato di libertà? Quindi tutta quella fatica per pesare ogni singola mossa, tutte quelle attenzioni a lei rivolte, tutta quella coraggiosa calma tirata fuori, erano solo una finzione? Bastava una stupida stanza chiusa a chiave per mandare all’aria il suo piano? Allora tanto valeva che portasse tutto il resto del corpo a terra e che si facesse trovare in posizione fetale.

Si domandò quanto gli altri ci stessero mettendo. Ripeté a se stesso che stavano giocando. Che erano lì per una divertente escape room. Si avvinghiò intorno a questo pensiero per il sopraggiungere di un po’ di quiete. Portò la mano destra davanti agli occhi. La mano sinistra la raggiunse e tastò l’orologio che non brillava al buio. Osservò quel punto annerito e se lo portò sulla faccia. Le lancette che ticchettavano sull’orecchio destro e il cervello lì vicino che gli chiedeva cosa davvero stesse facendo. Lo allontanò. Lisciò con l’indice sinistro il vetro e riportò quel peso vicino al fianco. Si chiese ancora una volta quanto tempo fosse passato dalla sua incarcerazione. Poi immaginò che non sarebbe più arrivato nessuno. La voce di Kathy che, dentro un crudele esperimento psicologico, gli rivelava come la porta si sarebbe di nuovo aperta solo dopo aver risolto insieme il casino che aveva in testa. E allora tanto valeva dirle addio.

Chiuse la mano sinistra che era ancora lì in aria e si diede un colpetto sulla fronte.
Doveva stare tranquillo. Doveva tornare figo. Il rilassato Cameron delle ore prima che aveva detto a Zoe di pulirsi il piccolo pezzo di panino rimasto sul labbro.
Fece un passo di lato. Poi un altro.
Arrivò il pensiero che, come si stava muovendo lui, lo stesso valeva per il tempo. Che, tra poco, avrebbe sentito per forza qualcosa.
Fece un altro passo questa volta in avanti. Avvertiva odore di secco, come di calce, e la dolciastra puzza delle sue ascelle.
Continuava a muoversi intorno senza osare troppo. Non aveva per niente ripreso il controllo. Anzi. Gli sembrava di essere peggiorato. Non poteva guardarsi la faccia, era sicuro di averla stravolta. Una maschera ridicola; i capelli pettinati dal sudore. Si sentiva uno schifo. Era bastato così poco a trasformarlo ma forse aveva tempo. Forse poteva darsi una risistemata alla meglio. Pensò che la stanza potesse avere uno specchio ma che sarebbe servito a poco. Si fermò. A quanto ne sapeva poteva anche mettersi a correre e avrebbe trovato tutto lo spazio che voleva. Inspirò e buttò fuori. Accarezzò la nuca che era umida. Sacrificò la maglietta, rivoltando con entrambe le mani la parte bassa sulla faccia. Una passata veloce. Si sentì meglio, una parola che non sapeva più tanto dire cosa significasse. Passò la mano destra sui capelli che per fortuna erano corti e meno traditori. Poi non fece più niente e rimase fermo.
Pensò di iniziare a tastare la stanza quando arrivò un tonfo. Dalla sorpresa fece un passo indietro. Gli stava per scappare un “sono qui, sono qui” e si diede del coglione. La voce di Marvin gli domandò come stesse e che forse lo avrebbero lasciato lì dentro, aggiungendo una risata.

Cameron lo mise da parte e chiese se poteva dar loro una mano. Un’uscita che lo inorgoglì e gli fece capire di essere sulla strada giusta. Il nero perdeva densità. Poi la voce di Zoe lo informò che si stavano guardando intorno a caccia della chiave. Così, Cameron partì con foga nell’azione non richiesta di tastare lo spazio intorno e riportare a voce alta la sua esplorazione. Continuò fino all’arrivo dell’urlo eccitato di Marvin. Tese l’orecchio e Zoe lo informò che l’avevano trovata. Allora Cameron lasciò chissà quale angolo della stanza e si diresse lì, dov’era sicuro di trovare lei e la porta. Si strofinò il viso e lisciò i capelli all’indietro. Il corpo teso sui giri della chiave nella toppa. Poi dal buio apparve un rettangolo di luce con dentro il viso di Zoe. Lei avanti a tutti. E Cameron pensò a un segno del destino.

Capitolo 5

Non ci erano andati nemmeno vicini. Allo scadere del tempo, Kathy domandò se volevano conoscere tutti gli enigmi e Marvin la fermò all’istante tirando in ballo l’orgoglio. Ma gli altri sapevano che lo diceva più per non bruciarsi l’unico posto in tutta Wrinkly Hill a offrire quel tipo di divertimento. Una volta fuori lasciarono sfogare la delusione e, tra le sbuffate di Darrian e i commenti piccati di Odell, Cameron prestò ferma attenzione alle parole di Marvin. Tutto quel correre e pensare e incazzarsi gli aveva messo di nuovo fame e propose di continuare a lamentarsi al Food Trucker. Odell lo appoggiò e, con stupore di Cameron, anche Darrian decise di unirsi a loro. Così Zoe disse che sarebbe tornata a casa e lui scattò per accompagnarla senza, forse complice il morale a terra, l’arrivo di battutine. I tre ripresero per il lungo lago mentre lui, dopo tanto penare, riusciva ora a restare solo con Zoe.

Arrivarono alla fine di South Oak Avenue e dall’incrocio con Cordova Drive presero la strada che li avrebbe portati a casa di lei.
Il momento era arrivato e lui non spiccicava parola.
Cameron iniziò a guardarsi intorno per un qualche aiuto e ispirazione da Wrinkly Hill, dove Zoe era sparita come ritagliata da una fotografia. Sfuggiva al suo viso e finiva per interrogarsi sull’altezza delle verdi aiuole; sull’espressione così umana di quel cane al guinzaglio che stava per liberarsi sul marciapiede con stizza della padrona.

«Bella figuraccia abbiamo fatto, eh?» lei aveva preso la parola per prima e lui si rimproverò.
«Dai, non è andata così male… era difficile» disse lui, e gli occhi fuggirono di nuovo, incontrando le loro ombre allungate e un improvviso desiderio di arrivare presto a destinazione.
E non mancava molto. Si era accorto di aver percorso in poco tempo un bel pezzo di strada e la colpa era solo sua. Per l’ansia aveva allungato il passo e ora quella preziosa occasione si era ridotta a un quarto d’ora scarso.
Di colpo rallentò e lei gli rivolse un sorriso che lui non riuscì a ricambiare. Finì con il pensiero agli altri e parlò di loro. Quindi era tornato sull’argomento dell’escape room, su nuove strategie secondo lui davvero risolutive, con il risultato di sentire Zoe lontanissima. Scorgerla come un puntino nero tra un infinito deserto bianco e lo specchio del cielo. Aveva cominciato a parlare. Prima veloce, poi velocissimo. Si comandò di lasciarle spazio ma sentiva solo la sua voce. Poi Zoe aprì la bocca. Lui non rallentò e lei la richiuse. Si ordinò di sentire la sua voce ma era troppo tardi. Lì davanti arrivò la casa. Apparsa all’improvviso. Proseguirono fino al primo centimetro del vialetto. La porta reclamava la sua padrona. Lui e Zoe. Faccia a faccia. Nessuna scusa. Niente a ostacolarlo. La lingua defunta dentro la bocca e il sorriso di lei. Adesso o mai più, pensò. «Tra il pranzo al Food Trucker, che poi tanto leggero non era, e la stanza… mi sento a pezzi» disse Zoe e Cameron la fissava.
«Giornata piena!» disse lei.
La perdi.

«Vero. Pienissima.»

Guarda che la perdi.

«Ma bella… sono stata bene.»

Forza! Fatti avanti!

«Anch’io.»

La stai perdendo.

«Allora… ciao.»

L’hai persa.

«Ci si risente! Fatti una bella dormita.»

Andata.

Lei gli sorrise e prese per il vialetto. Lo percorse tutto e sulla soglia tornò a guardarlo, poi si voltò verso l’ingresso. La porta lo lasciò fuori in compagnia di tutte le speranze che aveva caricato su quel giorno.

Capitolo 6

Immobile. Gli occhi fissi sulla porta chiusa. Si domandò come gli era potuto uscire quel “fatti una bella dormita”. Perché mai avesse caricato così tanta sicurezza e speranza su quel giorno, che ora avrebbe ricordato come il peggiore tra tutti gli altri venuti e impilati prima. Poi pensò a un ritorno di Zoe sulla porta o da una delle finestre e lasciò il vialetto.

Camminava. Testa bassa. Non voleva reggere lo sguardo di nessuno e niente. Ma non se la sentiva nemmeno di andare a casa a leccarsi le ferite. Così lasciò il marciapiede per avvicinarsi a un prato e un gruppetto di alberi. Ne puntò uno e ci appoggiò contro la schiena. Prese a massaggiarsi la fronte e un capogiro lo trascinò con il sedere sull’erba. Chiuse gli occhi ma gli apparve davanti l’animo marcio che lo attendeva al risveglio e li riaprì. Wrinkly Hill si preparava ad accogliere l’arrivo della sera. Le facciate delle case cambiavano colore e le teste dei lampioni si illuminavano di uno sfocato giallo senape. Da lì, afflosciato su un’aiuola, Cameron seguiva il lento scivolare delle macchine dentro tranquilli e dolci fine giornata. Poi il cerchio alla testa divenne un lazo. Lasciò il verde e tornò sul grigio. Recuperò dai pantaloni il cellulare e aprì internet. Tutto per evitare di vedere il mondo e pensare. Tutto per evitare di sentire i battiti del suo cuore. Tutto per non tornare su Zoe. Su di lui. Dentro quella maledetta giornata che aveva sentito perfetta per tutta una serie di piccoli segnali. Passeggiava e guardava lo schermo sperando di riuscire a ingannare l’attesa. Tutto per non pensare alla cena che lo attendeva. Alla sua camera e al buio della sera dove questa volta non avrebbe visto affacciarsi il viso di lei.

L’idea di chiudersi in un bar e affrontare anche solo la minima interazione cameriere-cliente era insopportabile. Lui voleva solo Zoe e al momento era irraggiungibile. E poi stava per crollare. Una sedia lo avrebbe ucciso. Raggiungere gli altri era escluso.

Capitolo 7

Camminava. Rallentato nel passo e nella testa. Poi alzò gli occhi dal cellulare. Nessuna anomalia. La strada, gli incroci, le case. Tutto come sempre, tutto così inutile. Cameron tornò sul cellulare. «Occhio, che finisci contro qualcosa.»
Il cellulare come saponetta tra le mani. Lo recuperò e alzò gli occhi sul viso di Zoe.

«Darrian… ma…» gli uscì sottovoce. Maledetta testaccia, aggiunse in privato.
«Senti, quei due sono ancora là a farsi di tutto. Odell ha preso un hot-dog lungo due piatti. Chissà quanto ancora mangeranno.»
Cameron lo guardava e sentì forte il desiderio di stare con Zoe.
«Che fai? Stavi tornando a casa?»
«Sì. Sono un po’ stanco.»
«Ti va se ci facciamo due passi?»
Il pensiero di passare del tempo con quel riverbero di Zoe non lo allettava. «Facciamo un’altra volta, ok? Sono davvero cotto.»
«Ok. Mia sorella è arrivata a casa sana e salva?»
«Sì. Ho aspettato che entrasse» disse, e gli sarebbe tanto piaciuto riportare un’altra versione della storia.
«Guarda che a me va bene.»
Cameron aggrottò la fronte. La testa gli aveva già fatto un brutto scherzo mettendogli davanti il viso di Zoe invece di quello del fratello e ora continuava a torturarlo. Ora sentiva cose impossibili e lui era stanco. E arrabbiato. Voleva solo dormire. Magari prima sfogando la rabbia sul cuscino, ma non tirarla fuori ora. Non davanti a Darrian che poteva ancora trattenerlo dal ritorno a casa. Decise di stare al gioco e chiedere, ma lui lo anticipò.
«Eddai… non sono cieco.»
La sorpresa lo travolse. Quindi lui sapeva.
«Io…»
«Domani vi vedrò a braccetto insieme?»
Cameron abbassò lo sguardo senza dire nulla.
«Non glielo hai detto? Ma come? Vi ho lasciato soli apposta!»
Cameron continuava a fissare il blu della polo di Darrian e a lei parlò.
«Io… io ci ho provato…»
«Senti, lascia fare a me. Va bene se glielo dico io?»

Cameron tornò a guardarlo negli occhi incredulo per quello che aveva appena sentito. Ma a quello stupore si aggiunse anche un altro sentimento che voleva evitare trasparisse. Non voleva ammetterlo, ma anche se quella proposta era mossa dalla totale buona fede, aveva finito per sentirsi umiliato. E, cosa ancora peggiore, provò odio verso sé stesso per il sopraggiungere del sollievo. Davvero voleva dimostrare a sé stesso e soprattutto a Zoe di essere ancora meno uomo di quello che era? Davvero voleva che lei sentisse quello che provava per voce di altri? Davvero, nel caso lei avesse ricambiato, voleva iniziare così la loro storia?

E invece di darsi una risposta, lasciò che una nuova immensa curiosità lo travolgesse.
«Ma allora… tu… lei… tu sai se lei…»
«Lascia che le parli.»
Cameron lo guardava. Gli occhi di Darrian straripavano di determinazione. Lasciò passare un po’ di tempo. Poi pronunciò parole che registrò come dette da qualcun altro e Darrian sorrise.

Capitolo 8

La notte era passata tranquilla e lui si sentiva bene. Aveva alzato la testa dal cuscino e c’erano stati cinque secondi di vuoto.
Poi tutto tornò. Il senso di colpa, Zoe, Darrian, e i cinque secondi furono solo un ricordo lontano. Doveva prepararsi perché quel giorno sarebbe stato davvero diverso. Non come quello tanto sbandierato del giorno precedente oppure tutti gli altri prima. Oggi le cose sarebbero cambiate per forza perché il mondo sapeva. Perché aveva messo il suo segreto nelle mani di qualcuno che teneva davvero a lui. Una strana euforia gli lavorava dentro e piantava un tappetino di pelle d’oca.

Lasciò il letto. Recuperò la felpa afflosciata sullo schienale della sedia vicino alla scrivania e ci finì dentro. A passo lento, quasi a trascinare il corpo, uscì dalla camera. Esplodeva di energia e compiva movimenti misurati.
Strano giorno oggi, strano me, pensò.

Arrivò in bagno. Dopo i denti toccò alla faccia e fu come lavarla con altra eccitazione. Abbozzò addirittura un occhiolino allo specchio.
Tornò in camera pensando di trovarla diversa. Si stava convincendo che quel giorno avrebbe trovato tutto un mondo nuovo ad attenderlo.

Si tolse la felpa e si vestì in fretta. Si stiracchiò, poi prese lo zaino che penzolava dalla sedia. Raggiunse le scale, che bruciò in un attimo, e arrivò nel salotto del piano terra. Non c’era luce. Guardò fuori dalla finestra che dava in strada e trovò i tetti delle case incorniciati di grigio scuro. Seguì una sensazione di calore, di ritorno nel ventre materno come quando da piccolo restava a casa per la febbre, cosa che capitava spesso. Sorrise.
«Mami?»
Doveva aver iniziato presto, rifletté, e da lì il pensiero che lo stesso valeva per suo padre giù al Town. La mattina in casa Schwartz iniziava sempre molto presto ma a Cameron piaceva farsi sentire e, se stava attento, poteva trovare la voce di sua madre nella firma di pulito e vaniglia che a lei piaceva tanto.
Scivolò sulla sinistra, in cucina.
Abbandonò lo zaino su uno dei due sgabelli dell’isola e puntò il frigo. Nel tragitto incontrò il magnete a forma di squalo che gli aveva regalato tempo prima Darrian al mercatino. “Così brutto che fa il giro e diventa figo” aveva aggiunto l’amico con un sorriso subito dopo l’acquisto.
Darrian.
Darrian che poteva già averlo detto ieri sera a Zoe.
Darrian, l’angelo.

Darrian, un’arma di distruzione di massa.
Darrian, un cataclisma naturale.
Poteva andare avanti ancora e ripeté a se stesso che così stavano le cose. Si domandò quali tessere del domino fossero cadute nella notte, mentre lui dormiva.
Ma non era a Darrian che doveva pensare. Perché alla fine della strada c’era Zoe. La sua Zoe.
Un torpore lo riportò lì. Teneva la maniglia vicina al viso mentre il frigo sbuffava freddo. Mise a fuoco il portavivande appannato che occupava tutto il terzo piano e cercò la pancetta. Si muoveva piano. Una lentezza che non apprezzava fino in fondo. Lasciò il frigo. Fermo, in piedi, con tutti i pezzi della colazione in mano, guardava in direzione delle scale e si chiedeva dove fosse finita la grinta di prima. La prima di altre domande. Come poteva stare così tranquillo? Che sicurezze aveva? E se non fosse successo nulla? Che ore erano? Dovette abbandonare subito burro, pancetta e il pane tostato perché la testa gli ronzava. Tornò a guardare il grigio fuori dalla finestra sopra il lavello e pensò a un presagio. Un segno.
Se continui così ti prende un infarto, pensò. Bene. Almeno finisce questa tortura.
Portò la mano destra sul pane, la sinistra sulla pancetta e lasciò andare il pilota automatico. Il burro spalmato, le curve della marmellata, il caffè e lo sfrigolio sulla padella. Riti che gli suggerirono di lasciar perdere certi pensieri. Che le cose si sarebbero risolte al meglio da sole.

Preparò anche una spremuta di arancia che gli uscì fluorescente e portò tutta la colazione sull’isola. Raggiunse uno sgabello. Beveva il secondo sorso di spremuta quando il cellulare squillò. Raggiunse la tasca dei pantaloni, se lo portò davanti e guardò il display.
Zoe.

Le tre lettere bianchissime sullo schermo. Fissava il cellulare. Una pressione del dito. Una nuova vita. Oggi. 8 marzo 2019. Una data che avrebbe ricordato, e pensò a quanto fosse in qualche modo giusto che lui e Zoe si sentissero proprio la mattina presto.
Cameron fece scivolare il dito.

«Pronto, Cam?»

La sua voce. Quindi stava succedendo sul serio!

«Ciao» disse lui.
«Ti disturbo?»
Chissà che espressione ha dall’altra parte…
«No, no, come va?» disse Cam mentre vivisezionava la domanda di lei. Un po’ strana, visto quello che li aveva portati qui. Ma ora non era nella maniera più assoluta il momento di perdersi in certi pensieri. Con la mano libera prese a giocare con un piccolo pezzo di mollica che gli era rimasto sul piatto. Lo trasformò in una sfera che torturava tra indice e pollice.

«È successa una cosa…»
Cameron non disse niente e portò lo sguardo nel piano dell’isola. Lui, con in mano un capo della telefonata, e lei l’altro. Lui, ostaggio di un sistema binario che non ammetteva tanti giochi di prestigio. «Darrian è stato pestato a sangue da due poliziotti, ieri sera.»
«D-Darrian?» balbettò Cameron e schiacciò la piccola sfera.
«Sì.»
«L’ho visto ieri pomeriggio e stava bene!» disse Cameron e si diede dell’idiota domandandosi quale attinenza avesse questa informazione con quanto aveva appena sentito.
«Lo so» disse lei dall’altra parte. «Me lo ha detto.»
Cameron strinse le dita intorno al bordo del cellulare e quasi gli saltò via. Riuscì a uccidere la voglia di andare più a fondo.
No, non ci posso credere… Darrian… avrà… avrà fatto in tempo a dirglielo?
Il pensiero lo lasciò nudo.
Chiedi di più! Chiedi! Chiedi di più, cazzo!
«Come sta?» disse, dopo troppo tempo.
«Male. È in coma.»
Cazzo!
«Come?» disse Cameron e per un momento si perse nell’assurdo pensiero della parentela tra le due parole. Aggrottò la fronte, il labbro inferiore contro la gengiva. Si guardò intorno in cerca di qualcuno che non c’era.
«Nooo» aggiunse e si paralizzò. Lei non diceva nulla e Cameron volle vedere lo schermo. Se lo portò davanti agli occhi, poi di nuovo all’orecchio. Sempre silenzio. Poi il piano del tavolo vibrò forte e si ricordò di avere delle gambe. Avvertì un indolenzimento sulla curva del ginocchio destro e rallentò il balletto del piede sullo sgabello.
Parla, Cameron! Parla, deficiente!
Ancora nulla dal telefono.
Di’ qualcosa!
«Senti, sto facendo il giro delle chiamate. Ci sentiamo più tardi.»
Strizzò gli occhi. Chiuse la mano libera a pugno e strinse i denti.
«Se… se hai bisogno di qualcosa sono qui. Chiamami» disse lui e si fermò. «Chiamami perché lo sai che ti voglio stare vicino» aggiunse.
Gli fu lampante quanto avesse detto troppo e in malo modo.
«Sì. Ci sentiamo dopo» chiuse lei.

Cameron rimase a fissare il cellulare che era da buttare. Marchiato da una maledizione che non sarebbe mai andata via.
Cercò con gli occhi il tavolo. Non si era accorto ma, chissà quanto tempo prima, aveva lasciato lo sgabello. Restò lì, in piedi, con il cellulare ancora in mano. Lui e il pensiero alle ridicole parole di conforto che le aveva detto.

Zoe.
Darrian in ospedale. In coma…
E in quel momento lo travolse tutto lo schifo che abitava dentro lo spazio di quelle tre parole vicine. Lanciò il cellulare sopra l’isola. Non fece molta strada e nemmeno danni, finendo contro il bicchiere di spremuta ancora bello pieno che rimase in piedi. Nemmeno quello riusciva a fare bene.
Si puntò al tavolo. I palmi pressati contro il bordo e le braccia tese. La testa che guardava il pavimento con il ginocchio piegato e il piede destro che spuntavano sotto, in avanti.
Darrian è in coma.
Il suo amico.
Coma.
Una parola impossibile. Folle. Pericolosa come un mondo esotico che non vedi, ma sai che esiste da qualche parte nel buio della Terra e di te stesso.
Voleva piangere. Strinse gli occhi che rimanevano secchi come sabbia.
La voglia di richiamare subito Zoe. La determinazione a non disturbarla e chiamare tutti gli ospedali e farsi trovare là in camera vicino a Darrian. La voglia di rivedere Darrian sano e salvo, in piedi. Le scuse da fargli. Scappare dalla cucina e dalla casa e raggiungere quella di Zoe. Chiamare Marvin e Odell… Che lei poteva aver chiamato prima di lui. Chi tra i due? Odell? Oppure Marvin?
Spinse forte sull’isola e finì con la schiena contro il blocco dei fuochi. Come poteva ancora, dopo quello che aveva appena scoperto, pensare a cazzate del genere? Il suo amico… uno dei suoi migliori amici stava per morire e lui pensava a far bella figura. Si diede del coglione, dello stronzo, e si rispose che meritava di stare così male. Poi si rese conto che non sapeva niente. In quale ospedale si trovava Darrian? Dove lo avevano picchiato? Chi erano i due poliziotti? C’erano dei testimoni? Chi lo aveva trovato? Niente. Non aveva chiesto nulla e lei era rimasta in silenzio. Perché la loro Zoe, la sua Zoe, non voleva farli mai soffrire. Doveva richiamarla. Doveva sapere. Doveva, doveva, doveva. Doveva, ma prima? Si domandò. La schiena finì ancora contro qualcosa. Si girò e trovò il frigo aperto. Di poco. Era così, da quando aveva preso le cose per la colazione. Che idiota, aggiunse. Lo accostò e rimase a fissarlo. Il magnete a forma di squalo, lì in alto. Il viso divertito di Darrian mentre glielo porgeva quel giorno al mercatino. Una vita fa.

Capitolo 9

Erano passati dieci giorni dal compleanno di Darrian in ospedale e Cameron li aveva vissuti come un
altro inferno. Avevano brindato a un nuovo futuro insieme, ma lui aveva lasciato il bar distrutto. Zoe
li aveva chiamati per sentirli di nuovo vicini e invece Cameron non sapeva più come sostenere il suo
sguardo.
Zoe che aveva chiesto aiuto ai Black Breathe Like You.
Zoe che aveva pianificato con loro una strategia.
Zoe che l’avrebbe portata a termine con o senza di lui.
Quante cose si erano messe in mezzo tra loro due.
Dopo aver lasciato l’ospedale, nel tragitto verso casa, Cameron aveva provato tanta paura mischiata
a qualcos’altro. Di meno puro. Più subdolo. In un primo momento aveva pensato fosse per Zoe. Per
la nuova forza adulta che stava sprigionando. Ma ci erano abituati. No, lo schiaffo più forte era
arrivato dalla consapevolezza enorme che Zoe si era mossa. Aveva reagito. Un’altra lezione
invisibile. L’ennesima.
Allora i giorni avevano portato a Cameron una nuova solitudine, assoluta. Una paralisi.
Ma non a lei. Non a Zoe e questo pensiero lo scosse. Studiò a fondo i Black Breathe Like You con le
ore di lezione e i pomeriggi passati a studiare la loro storia, la rassegna stampa tra siti e social e i tanti
nomi che si affastellavano intorno e dentro il gruppo. Cameron ci aveva dedicato tutto se stesso e loro
non avevano più segreti. Ci pensò, ci si strinse intorno, e la considerazione che questo valeva anche
per Zoe lo riportò al punto di partenza.
Allora era partito con i messaggi e qualche chiamata poco convincente.
Un “come va?”, un paio di “come procede?” e “come va l’organizzazione?”. Tanti “ti sono vicino”.
Una cascata di rettangoli che, rileggendoli, sembrava fossero stati scritti da un tizio qualunque. Anche
con l’invio del link a un’impresa dei Black Breathe Like You aveva fallito, con la risposta di lei
arrivata mezza giornata dopo. La testa fissa su un preciso pensiero e un mucchio di domande.
Zoe aveva reagito. E lui? Cos’aveva fatto se non stare a guardare? Cosa poteva fare? Possibile che
non avesse idee neanche dopo quell’incontro in ospedale?
Poi gli fu chiaro. La risposta sotto gli occhi per tutto il tempo.
Non serviva far parte di un gruppo attivista. Non serviva essere in grado di elaborare strategie. Non
era necessario possedere contatti stampa o tanta esperienza.
Allora, preso da una febbrile eccitazione, l’aveva chiamata per darsi appuntamento da Sal. Una
gelateria. Qualcosa di semplice e non impegnativo che non fosse la dittatura di una panchina o il muro
di un vicolo. Che offrisse una scenografia ricca di tanti piccoli diversivi.

Il giorno dell’appuntamento, superò il Red Lobster e guardò l’orologio.
Camminava. Camminava e scaricava a terra i pensieri. Era partito con largo anticipo e poteva
prendersela con calma. Una scelta di tempi che per il tanto rimuginare lo aveva fatto pentire più di
una volta.
I pensieri erano tanti e ancora smaniosi di attenzioni ma non c’era più tempo. Le gambe lo avevano
portato da Sal. Alla fine della strada e all’inizio di una nuova.

Capitolo 10

Decise di non aspettarla, di entrare e prendere posto. Magari scegliendo anche il giusto tavolo. Prese il cellulare, le mandò un messaggio per avvertirla, poi salutò il gelatone gigante di plastica vicino all’ingresso e andò incontro alla porta.
Come sempre, quando entrava lì dentro, il suo occhio finì sulle vaschette dai colori fluo dietro il vetro. Era un pomeriggio tranquillo da Sal, con due gruppetti di adolescenti e una coppia. Cameron sospirò per la gratitudine.
Claire, una minuta cameriera con i capelli biondo cenere e la divisa color cioccolato lo salutò. Lui chiese di poter prendere posto in attesa dell’arrivo di una persona e insieme raggiunsero il piccolo tavolo accanto alla grande vetrata con il logo del locale. Claire gli domandò se intanto voleva dare un’occhiata al menù. “Tanto prendo sempre il solito ma dammelo pure, grazie”. Dopo un veloce dietro front lei portò due fogli plastificati. Cameron ringraziò e rivolse lo sguardo alla strada che vedeva alla sua destra.
La testa di Zoe apparve coprendo il ricciolo basso della grande S di “Sal”. Cameron la seguì finché non apparve sull’ingresso. Lei fece per chiamare una cameriera che aveva vicino, poi vide la sua mano alzata.
Prese posto avvicinandosi con la spalla al vetro. Gli era di fronte.
«Ciao.»
«Ciao, ben arrivata» disse Cameron, finendo con lo sguardo sulle due mezzelune grigie che scurivano lo spazio sotto i suoi occhi. Sulle guance, le diagonali dagli zigomi alla mandibola che lui conosceva bene sembravano essere state ripassate a penna.
Lei gli rivolse un sorriso freddo, tirato su con enorme fatica.
Era a pezzi e Cameron la trovava comunque bellissima.
«Hai già ordinato?»
«No, volevo farlo con te.»
Lei rispose con un doppio mugolio e recuperò il menù. Arrivò Claire e ordinarono. Zoe seguì con lo sguardo la sparizione di Claire più del necessario e tornò su di lui. Il mento alto e la schiena dritta. Le braccia incrociate sul tavolo con le mani intorno ai gomiti.
È ostile, pensò Cameron domandandosi anche perché.
Poi le palpebre di lei batterono due pesanti intervalli. Un movimento così lento da sembrare meccanico. Stava tenendo in piedi un corpo a pezzi e lui non le avrebbe di certo domandato se fosse stanca.
«Come stai?» disse caricandovi troppa retorica. Se lo fece andar bene e si concentrò su di lei.

La lingua di Zoe andava mentre i suoi occhi restavano fermi, come infastiditi dalle parole.
Arrivarono le coppette e tornò il silenzio. Lei finì il gelato per prima e a Cameron sembrò più rilassata.
«Sono qui, dimmi.»
Cameron restò con il cucchiaino in bocca. Poi non era davvero più il caso e lo tolse di mezzo. Lei lo scrutava.
«Volevo chiederti scusa. Forse non ti sono stato così vicino come avrei voluto. Quando ci hai raccontato quello che avevi organizzato con i Black Breathe Like You… ho immaginato quanto potessi esserti sentita sola.»
Gli occhi di Zoe, così immobili da sembrare di vetro, non gli rendevano certo le cose facili.
Questa volta se non ti fai avanti si incazzerà. Hai di fronte un’altra Zoe.
Le chiese se le andava qualcos’altro da mangiare. Lei aprì la bocca dopo un silenzio che a Cameron sembrò lunghissimo. «Senti, Cam… stai tranquillo. Va bene. Va bene così. Non importa.»
Cameron sussultò. «C-cosa? Cosa non importa?»
Lei si prese altro tempo per rispondere. «Lo capisco se non te la senti. Non preoccuparti» e, finita la frase, il viso di lei si pietrificò in un’espressione carica di tristezza.
Cameron sentì montare dentro la rabbia ma riuscì a controllarsi.
«Cos’hai capito? No, non intendevo…» e sconfitto dalla sua espressione, non riuscì a finire la frase.
Claire si era avvicinata e aveva chiesto se avessero intenzione di prendere qualcos’altro. Senza guardarla, Cameron le lanciò contro un secco no e lei, interdetta, levò subito le tende.
Non stava affatto andando come aveva previsto. Non stava proprio andando bene.
Cameron provò a mettere insieme una ripresa ma gli era chiara la brutta situazione in cui era finito. Se ora si fosse dichiarato avrebbe rischiato che lei pensasse a una disperata mossa per recuperare o, peggio, avrebbe corso il rischio di passare solo come un egoista. Più la guardava, più gli sembrava
evidente quanto fosse a un passo da uno dei due abissi.
«Ti ho chiamato qui per dirti che puoi contare su di me. Volevo dirtelo da solo, così che non pensassi che mi fossi fatto trascinare dagli altri.»
Il viso di Zoe cambiò espressione e Cameron pensò che forse quella fiacca corsa ai ripari stesse funzionando.
Lei lo ringraziò e dopo un momento gli indicò il viso. Lui non capì. Poi lei girò l’indice su di sé.
Cameron sgranò gli occhi e prese da sopra il tavolo dei fazzoletti che si portò alle labbra.
«Possibile che tu ancora non riesca a non sporcarti quando mangi il gelato?»
«Non ho mai imparato» disse lui abbozzando un sorriso.
«Grazie. Comunque se ti fossi tirato indietro lo avrei capito. E non te ne avrei fatto una colpa.»

E quel tornare di Zoe sull’idea che lui avrebbe potuto lasciarla sola convinse Cameron di aver fatto la scelta giusta. Non era ancora il momento. Nella maniera più assoluta. E questa volta non per colpa sua ma perché era così che doveva andare. Mancavano pochi giorni alla dimostrazione con i Black Breathe Like You e l’avrebbero vissuta, se non a testa alta, almeno tutti e quattro insieme. La paura dentro e intorno a loro sarebbe cresciuta sempre di più. Ma se esisteva una consolazione, seppur magra, era che nessuno e niente poteva sottrarsi al sopraggiungere di un giorno dopo cui ne sarebbe seguito un altro e un altro ancora, fino a trascinarli lontano da quel momento difficile.

Capitolo 11

I piedi infreddoliti spingevano sulle molli pareti dell’intestino incoraggiando una guerra persa in
partenza. Si era vestito poco, e quella leggerezza verso una variabile così elementare come il tempo
lo fece innervosire ancora di più.
La cara vecchia Wrinkly Avenue, attraversata così tante volte, gli appariva ora nuova, distante.
Fuori, centinaia di piccoli occhi brulicavano, pronti a sciogliere la carrozzeria dell’auto come burro.
Doveva rilassarsi. Posò lo sguardo sulla facciata del palazzo di fronte e cominciò a contare le finestre
dell’ultimo piano a scorrere verso destra. Era un esercizio a cui ricorreva spesso in situazioni di stress.
Poteva interessare mattoni, strisce pedonali, file di lampioni e tutte le famiglie di gemelli offerti dal
panorama circostante. Contava e passava oltre, cullato dalla ripetitività.
Le dita di Marvin continuavano a sgommare sul vetro.
«La finisci, per favore?» sbottò Cameron.
«La finisci per favore?» ripeté Marvin con vocina stridula e espressione divertita. Poi fece per
mollargli una gomitata sulle costole. Una finta che bastò a far schizzare Cameron in aria.
«La smettete lì dietro?» disse Zoe. Di lei, dal suo posto, Cameron scorgeva solo il colletto rialzato
del giacchetto di jeans fare capolino oltre il poggiatesta. E questo gli bastò per iniziare a ricostruire il
resto con allenata memoria fino a trascinarla lontano, dentro un sabato pomeriggio sotto i neon delle
attrazioni di un piccolo luna-park lustrato a lucido per dovizia di particolari. Loro due nella folla del
parco e allo stesso tempo soli. Il viso di Zoe disteso, proteso verso di lui in cerca di attenzioni. Giri
di giostra, un peluche vinto tirando alle lattine e lo zucchero filato. La paura solo per la Casa degli
Orrori.
Il film dentro la testa prese a pulsare così forte che Cameron saltò ancora. Un’occhiata furtiva intorno.
Nessuno e niente su di lui. Fissò il poggiatesta con dietro la testa di Zoe, poi scattò con gli occhi
sull’entrata del Diner. «Raga, qui dietro non ci sto.»
Cameron pregò Marvin di star buono. Poi cercò di portare la sua attenzione da un’altra parte e finì
per concentrarsi sull’odore di chiuso e bagnato mischiati a qualcos’altro di acre. Rivolse lo sguardo
sotto il sedile che aveva davanti. Vi buttò il piede e sentì qualcosa, un volume molliccio. Pestava e
quello cambiava forma. Mosse il piede di lato e dal buio sbucò il picciolo di una banana che chissà
da quanto tempo stava lì. Così come il tappetino di bucce di arachidi. Cameron chiuse gli occhi.
Ispirò, buttò fuori e li riaprì. Questa volta Odell non aveva scuse. Ci avevano provato in tutti i modi
e lui faceva sempre spallucce. Ricatti, psicologia inversa e Marvin che gli aveva ripetuto più volte
come nessuna ragazza sarebbe mai entrata lì dentro. Niente. Pure oggi, con quello che avevano da
fare. Cameron si aspettò di sentire la voce di Zoe che non arrivò. Poi si concentrò sugli scossoni del

sedile impartiti dal su e giù della gamba di Marvin. Senza dire nulla, Cameron allungò la mano e gli
strinse il ginocchio. Marvin, che fino a poco prima guardava fuori dal vetro, rivolse lo sguardo in
basso e poi su di lui. Sorrise.
«Ti va di pomiciare, Cam?»
Cameron scansò la mano e Marvin iniziò a ridacchiare.
Arrivò la voce di Zoe e non ci fu tempo per altro. Dall’altro lato della strada apparve l’auto della
polizia e Cameron supplicò che proseguisse. Invece si fermò a pochi metri dall’ingresso del King.
Gli stop rossi e poi neri. Lo sportello lato guidatore si aprì e videro uscire uno dei due poliziotti.
Stessa mossa fece l’altro sul lato del marciapiede.
Cameron non li perdeva di vista. I loro bersagli avevano lasciato il mondo dell’immaginazione e ora
camminavano in quello reale.
Il primo che avevano visto scendere chiuse la portiera e fece il giro per raggiungere l’altro sul
marciapiede.
Eccoli là, pensò Cameron. Eccoli, ripeté. Le due larghe corsie della strada a separarli. Cercò con lo
sguardo i suoi amici. Tutti e tre attenti sui nuovi arrivati. Immobili come statue ancora dentro il
marmo. I poliziotti erano due sagome colorate. I volti, a malapena distinguibili, piantati sopra le
perentorie divise. Così anonimi da fare ancora più paura. Stavano perdendo tempo a parlare. Vicini
all’auto. Uno dei due dava le spalle alla strada. Erano troppo distanti per riuscire a decifrarli meglio
ma tanto bastava. Erano là. Il loro nemico. Il centro di tutto. Darrian. Zoe. Il dolore. La fine di un
mondo che non sarebbe forse più tornato. Il loro folle coraggio che li aveva portati lì. Tornò in sé per
il dolore alla mano destra e lasciò la maniglia.
«I due parlano del più e del meno.»
Era Zoe. Cameron la guardava dallo specchietto laterale. Fissava i poliziotti. Come tutti gli altri lì
dentro.
«Parlano dello scorso week-end… delle mogli… del lavoro…»
Continuava Zoe, con un tono asciutto, spoglio di qualsiasi vero interesse. Intanto le due divise
restavano a prendere il sole. Il più fisicato della coppia, capelli neri a spazzola, avave appena portato
il sedere sul cofano dell’auto.
«Perché non entrano?» domandò Cameron.
«Ora il poliziotto seduto si alza e dice di andare. L’altro acconsente e prendono per l’ingresso.»
Era tornato di nuovo su di lei. Zoe che raccontava loro il futuro mentre quelli erano ancora lì fermi
intorno all’auto.
«Quello più alto spinge davanti a sé la porta ed entra per primo. Ha messo così forza che il collega
gli va dietro senza problemi.»

Zoe continuava a raccontare un mondo che non esisteva e lo faceva con tutta tranquillità. Cameron
l’aveva vista scivolare sul sedile come uno spettatore sprofondato nella poltrona del cinema. La cosa
lo inquietò.
«Meglio di un film, cazzo» disse Marvin con un tono che tradiva un certo nervosismo.
«I due sono dentro al King e si sentono a casa, al sicuro. Salutano la cameriera e ordinano. Uno di
loro si aggiusta i pantaloni prima di appoggiarsi con un gomito al bordo del bancone…»
L’immaginazione fioriva veloce e robusta dalla bocca di Zoe. Lei non rallentava e Cameron voleva
la smettesse. Un conto era che a fantasticare fosse lui, che di quei viaggi mentali viveva. Sentirli
pronunciare da Zoe invece era una cosa che lo mandava fuori di testa. I poliziotti raccontati da Zoe
stavano per essere serviti mentre uno dei due che era davanti ai loro occhi lasciava ora il cofano. Il
linguaggio del corpo che spingeva l’altro a entrare al Diner. La vicina riconciliazione tra quei due
agenti di carne e ossa e i loro fantasmi già dentro lasciò a Cameron una certa inquietudine.
Ma non ebbe il tempo di provarla.
Il poliziotto alto e biondo non assecondò il collega che invece stava andando incontro al Diner. Non
era proprio biondo, si trovò a pensare. Più rossiccio, aggiunse, e scacciò il pensiero. Lasciava il
collega da solo e guardava davanti a sé. Da quella distanza era difficile scorgere qualcosa in più di
due piccoli vicini buchi neri ma sembrava puntasse proprio nella loro direzione. Poi ogni dubbio
svanì. Il poliziotto si spostò in avanti. Un piede e poi l’altro, sopra una precisa retta invisibile che lo
separava dalla macchina di Odell.
Zoe aveva smesso di parlare e questo valeva come la più grande delle conferme.
I passi dell’agente aumentarono. Lasciò il marciapiede, passò vicino al cofano della volante e
raggiunse la strada. Un’enorme tranquillo pick-up blu elettrico rallentò la sua marcia per lasciarlo
attraversare ma il poliziotto gli fece cenno di passare. Il pick-up proseguì e tornò ai loro occhi la
sagoma del nemico che non era più solo. Anche il collega lo stava raggiungendo, gli occhi sempre su
di loro. Gli si affiancò.
«Che cazzo sta succedendo?» disse Marvin.
«Non lo so» rispose Odell.
«Sembra ce l’abbiano con noi!» continuò Marvin. «Cazzo, ci hanno scoperti!»
«Impossibile» disse Zoe. «È impossibile. Come fanno a sapere?»
Zoe parlava sottovoce. I due poliziotti immobili dall’altra parte della strada. Cameron muoveva la
testa da loro due a Zoe.
«Non è possibile, ragazzi» aggiunse Zoe.
«Metto… metto in moto?» domandò Odell.

«No!» e il boato della voce di Zoe costrinse Cameron a rintanarsi dietro al poggiatesta. Anche Marvin
si accucciò, per quanto gli era possibile.
Poi le due divise si scambiarono un atteggiamento d’intesa, come gli fu anche fin troppo chiaro
vedere. Gli agenti non mollavano. Nell’abitacolo non correva un fiato, mentre nello spazio fuori il
giorno e i tanti spicchi di vita continuavano la loro corsa.
Cosa fanno? Perché se ne stanno lì? pensò Cameron.
Poi abbandonò il poggiatesta. La schiena contro il sedile. Si avvicinò al finestrino e tirò giù il vetro.
Il mondo come un enorme strapiombo orizzontale. Incrociò le figure dei due poliziotti che ora, senza
più ostacoli, respiravano il suo stesso ossigeno.
«Cosa fai?» domandò Odell e Cameron vide che aveva addosso sia lui sia il viso di Zoe. Silenziosa,
faticava a tenere a bada un’esplosione di disapprovazione e curiosità. Cameron li lasciò e tornò sul
finestrino. Agguantò il bordo di gomma che si era mangiato il vetro. Si affacciò sul solito panorama.
Cosa non vedevano? Si domandò e una monetina di luce lo catturò. In basso. Sull’asfalto. Un barattolo
con impressa un’etichetta blu scuro rotolava nel grigio, allontanandosi in diagonale dalla macchina.
Un barattolo… pensò e fece per dirlo agli altri quando il suo corpo si mosse per uno scossone.
«Ragazzi, qui dietro» disse Marvin appollaiato con le ginocchia sul sedile. Fissava il lunotto occupato
da una massa scura.
«Cosa c’è?» incalzò Odell. «Marvin scansati che non si vede niente!»
Dalla sua posizione privilegiata Cameron intuiva qualcosa di più. L’ammasso disomogeneo partorì
la precisa silhouette di due persone. Allora si aggrappò al poggiatesta del sedile posteriore. Si allungò
in avanti prendendosi delle lamentele da Odell. Il vetro sporco non aiutava. Ma nel ventaglio scolpito
dal tergicristallo gli fu più facile leggere un capannello di persone.
«Allora?» disse Zoe. «Cosa succede?»
«C’è un gruppo di persone» disse Marvin.
Cameron cercava una descrizione migliore e il finestrino di lato lo aiutò. Da lì sentì arrivare la voce
di un ragazzo che con un certo entusiasmo aveva raccolto il barattolo. “Signora, le è caduto questo”
aveva detto, per poi aggiungere che avrebbe controllato lì intorno se avesse perso altro. Una voce
adulta, più lontana, lo ringraziò per poi rivolgere a chissà chi la domanda se la signora stesse bene,
se forse era il caso di chiamare qualcuno.
Cameron riferì tutto agli altri. Vide Zoe archiviare subito la cosa e rimase a fissarla.
«Ma proprio ora doveva inciampare e cadere?» disse Odell, poi tornò a guardare davanti. Tutti loro.
Contro i due agenti. Cameron lanciò ancora un’occhiata al lunotto, ora più tranquillo.
Non poté vedere molto perché lo spettacolo era proseguito dal lato di Marvin. Allora non restava che
alzare la testa sui due agenti e un furgone bianco si mise in mezzo. Passò e tornarono le divise. Poi,

le due teste che puntavano ancora nella loro direzione si mossero. Come avessero ricevuto un ordine
militare sciolsero le righe e ripresero verso il Diner. L’agente con i capelli scuri accelerò mentre il
rossiccio se la prendeva comoda. Cameron si guardò intorno alla ricerca di un qualche sollievo ma i
sedili restavano muti. Tornò a guardare davanti. I poliziotti raggiunsero la porta del King che di lì a
poco li avrebbe inghiottiti tutti.

Capitolo 12

Cameron spostò il peso dal sedile all’asfalto.
Dietro di sé sentì chiudere tutte le portiere dell’auto. Odell e Marvin lo avevano raggiunto e gli
stavano al fianco. Buttarono un occhio sulla strada e presero ad attraversarla con Zoe in testa.
Quella mattina Wrinkly Avenue sembrava assopita. I passanti, le auto, i semafori e anche l’occhio
del sole. Tutto lento. Una tacca sotto il normale scorrere quotidiano. E lo stesso poteva dirsi per la
strada che avevano fatto per arrivare lì. Avevano attraversato metà Wrinkly Hill. Cameron si era fatto
tutto il tragitto incollato al finestrino. Qualche pausa per guardare Zoe. Dall’altra parte un mondo
spento. Addormentato come un animale in letargo. Loro, il petardo lanciato dentro la tana.
Superarono la volante dei due poliziotti. La loro auto già lontana un continente. Salivano sul
marciapiede e Cameron si bloccò per un ragazzino in skateboard che stava per metterlo sotto. Non lo
aveva visto.
Controllati.
Ma la testa continuava ad andare da un’altra parte.
Non è così che Zoe ti vuole. Non è così che tu ti vuoi.
Il ragazzino che Cameron avrebbe riconosciuto solo dopo, una volta spedita quella giornata nella
cartella dei ricordi, gli alzò contro il dito medio. Cameron lo catalogò alla stregua di una piccola
comparsa del grande show che stava per iniziare e non gli prestò la minima attenzione.
Una signora che arrivava sulla destra li vide e sgranò gli occhi.
Basso profilo un cazzo! Sto camminando con un’insegna al neon sopra la testa. Non stai per rapinare
una banca: calmati! comandò a se stesso per poi pensare all’infelicità di quel pensiero.
Arrivarono davanti all’ingresso del King e si scambiarono uno sguardo d’intesa. Cameron finì con lo
sguardo sul vetro specchiato della porta e pensò all’occhio di una telecamera.
«Pronti?» li chiamò Zoe e lui tornò a guardarla. Poi lei afferrò il grigio maniglione verticale, e lui non
ebbe più voglia di star dietro a niente che non fosse l’attimo presente. Un trillo esplose sopra le loro
teste e Cameron imprecò sottovoce. L’acuto lo mise in guardia contro un’immediata carica collettiva
che invece non arrivò. Alla totale indifferenza da parte dei presenti seguirono gli odori del caffè e
della torta di mele. Il dolce motivetto delle piccole casse sul soffitto per le quali provò una punta di
tenerezza. Sentì come un impulso per delle scuse generali. Il King Diner era casa. Quanti pomeriggi
avevano passato lì dentro? Quante sigarette si erano fumati di nascosto sul retro? Avrebbe ritrovato
la strada per i bagni anche bendato passando per le sole mattonelle nere. Ma oggi si sentiva un intruso.
Un virus.

C’era poca gente. Tra qualche settimana, complice il bel tempo, a Wrinkly Hill si sarebbe riversato
un fiume di turisti. Un via vai che allargava il sorriso dei negozianti e ristoratori. Ma oggi il King
restava ancora tutto di proprietà dei residenti, per la gioia di molti di loro.
L’ingresso si affacciava su un corridoio che separava il lungo bancone verde pastello e le file di tavoli
ai piedi della grande vetrata. Il King riprendeva i cliché di un Diner anni Cinquanta. Senza troppe
pretese, come lamentavano gli appassionati dei neon e delle targhe in acciaio. Colori tenui.
Arredamento più casalingo che vintage, e divise per i camerieri. Era stato ristrutturato da poco. Facile
che molti clienti non se ne fossero nemmeno accorti.
In piedi e in fondo, vicini al punto in cui il bancone curvava per i bagni, i due poliziotti conversavano
rilassati. Il rossiccio raccontava al collega chissà cosa. Il più alto tra i due. Capelli ricci su una testa
bianco latte. Bocca sottile. Gli occhi, due bottoni neri molto vicini al naso. L’altro gli stava di fronte.
Schiena e gomiti appoggiati al bancone. Lo ascoltava e giocava con il dondolio di un bicchierone di
plastica oltre il bordo. Tarchiato. I capelli a spazzola neri sparati in alto. Intervenne, e dopo un attimo
di spaesamento del collega scoppiarono a ridere.
E ora? Cameron constatò in quel momento con orrore come, una volta dentro, non avessero più un
piano.
Da dietro il bancone, la signora Meg, una donna molto magra tutta sorriso e occhietti vispi, li salutò:
«Ragazzi belli, cosa prendete? Vi sedete?». La “veterana delle cameriere”, così una volta l’aveva
soprannominata Marvin, era solita accogliere i clienti con tutti i denti e una dolcezza che se la batteva
con gli ottimi dolci del King.
Nulla, era l’assurda risposta che venne in mente a Cameron. Cercò aiuto in Zoe che però non aveva
prestato a Meg la minima attenzione. Era più avanti e dava loro le spalle. Cameron la vide
massaggiarsi una coscia. Si domandò se non l’avesse già vista farlo. La mano andava e veniva sopra
la tasca laterale gonfia dei jeans. Fissava ancora quel punto quando la voce di Odell lo strattonò.
Fulmineo, come gli fosse stato ordinato, l’amico aveva urlato un cappuccino e aggiunto a Meg che
avrebbe chiesto ai suoi amici. Lei lo fissò interdetta, poi tornò a sorridergli. Lo lasciò per la
macchinetta del caffè alle sue spalle.
«Prendete qualcosa anche voi!» comandò sottovoce Odell paonazzo.
«Mi si è chiuso lo stomaco» disse Marvin.
«Non è il momento di dire cazzate!» disse Odell, passando alla tonalità del viola.
«Odell, calmati» lo riprese Cameron.
«Che facciamo, Cam?» disse Marvin e lui, non sapendo cosa rispondere, si voltò verso Zoe che era
sempre più avanti. Presi da quella conversazione non si erano accorti di quanto li avesse distanziati.

Cameron la chiamò ma lei non rispose. A lui si unì Marvin e ancora niente. Zoe non li ascoltava e
guardava in direzione dei due poliziotti, che continuavano a parlare tra loro.
Poi Cameron la vide assumere una posa da pistolero. La mano aveva smesso di fare avanti e indietro
in quel punto e si era fermata aperta e tesa a pochi centimetri di lato dalla tasca. La infilò dentro e
tornò fuori stringendo una borraccia. Una di quelle sottili, di plastica. Cameron pensò alle sacche per
le trasfusioni di sangue, poi all’assurdità di vedervi là davanti proprio quel preciso colore. Il pugno
di Zoe carico di rosso.
«Ma…» fece appena in tempo a dire Cameron. Zoe portò la sacca alla bocca e vi si attaccò come un
vampiro assetato. Betty, che quando erano entrati serviva un tavolo lontano dall’ingresso, era vicino
a Zoe e la fissava. Impietrita. Ferma in un punto tra lei e i due poliziotti.
«Che fa? Che è quella roba?» disse Marvin.
Vorrei tanto saperlo anche io, pensò Cameron.
Poi Zoe scattò in avanti con passo deciso. Le sue guance gonfie.
«Zoe!» la chiamò Cameron.
I due poliziotti la videro troppo tardi, lei sputò e li prese in pieno.
«Questo è il sangue di mio fratello Darrian Trayvon, figli di puttana! Ce lo avete sulle mani! Ce lo
avete sulle maniii!»
Proiettili rossi partivano dalle labbra. Restò bloccata in avanti, i pugni chiusi. La bocca e il mento
grondanti di rosso e il collo segnato da una grossa vena.
L’urlo, così forte che Cameron buttò un occhio alla vetrata che dava sulla strada, strappò i clienti dai
tavoli. Le orbite bagnate dalla paura fissavano la sagoma di Zoe.
Il poliziotto muscoloso saltò sul posto. La schiena precipitò contro il bancone, poi cadde di lato.
Gambe all’aria sul pavimento.
Bella figura da eroico tutore della legge, pensò Cameron.
«Ferma dove sei! Non ti muovere! Ferma!» urlò l’altro mentre scavava con il pollice e il medio della
destra sulle fosse rosse degli occhi. La mano sinistra vorticava dietro la schiena. Chiamò il collega.
Cameron guardava Zoe e si domandava chi stesse vedendo. Si chiese in quale remoto angolo della
mente si trovasse ora la loro Zoe. Se stesse urlando oppure gridando di gioia.
Occhi sgranati galleggiavano intorno a loro. Dal brusio salirono alcune voci. Un uomo domandò loro
cosa stessero facendo e una mamma ordinò ai figli di andare verso l’uscita. I tavoli iniziarono a
svuotarsi con alcuni clienti che restavano sul corridoio a seguire la scena.
Cameron cercò le facce dei suoi amici. L’attenzione di Marvin era catturata dal capannello di
spettatori che continuava a crescere mentre gli occhi di Odell cercavano nei suoi una risposta.
Poi un uomo urlò all’attacco batteriologico e ai terroristi e fu il caos.

Un’anziana crollò a terra a peso morto. Urtò la spalla sinistra e la testa scattò velocissima verso il
pavimento. Una ragazza fece per soccorrerla ma venne calciata via da un velocista. Bambini presero
a strillare. Urla di incitamento per i poliziotti. Betty e gli altri camerieri scioccati. Il panico montava
rivelando squarci sulla natura primitiva. Urla e corse verso la porta. Cameron osservava immobile.
Da pochi, i clienti presenti al King quel giorno divennero centinaia.
L’effetto sorpresa e la vista accecata, compreso anche il bonus della caduta di uno dei due, avevano
fatto guadagnare a Zoe un ottimo vantaggio. Scattò di lato evitando l’assalto del poliziotto con i
capelli rossi. Il collega era tornato in piedi. La fissava e non la mollava un attimo. Continuava a
strofinarsi il viso con un tovagliolo strappato dal bancone. Poi Zoe girò le spalle ai due agenti e si
lanciò in avanti. Finì contro la schiena di un uomo. Si girò, la vide e sgusciò lontano. Il primo di tanti.
Zoe affacciava su uno spinoso corridoio di corpi. Lei, e anche i due agenti dietro.
«Andiamo!» comandò Zoe a loro tre. Li superò e continuò a tirare dritto verso l’entrata. Contro il
muro di gente. Cameron l’aveva seguita con lo sguardo. Gli occhi brillanti sopra la gigantesca
epistassi. Poi era tornato a guardare davanti, dove aveva letto un preciso movimento. L’agente con i
capelli neri aveva estratto la pistola. Troppa gente e troppo casino per sparare, pensò Cameron, poi
arrivò una botta e finì in ginocchio sul pavimento. Stava per crollare faccia avanti quando Marvin lo
riprese per il gomito. Il King gridava. Cameron strinse il braccio dell’amico e tornò in piedi.
Un’occhiata con Marvin e scattarono verso l’uscita. Cerco Odell e non lo trovò.
«Ferma ho detto!» tuonò la voce di uno dei due poliziotti. Ma Zoe, più avanti rispetto a lui e Marvin,
si era fatta strada in mezzo alla gente e aveva già raggiunto la porta. Zoe si girò per cercare i suoi
amici. Li trovò e urlò. Cameron vide quella bocca aprirsi e spinse in avanti. Scivolarono dentro un
imbuto di carne, una gomitata lo raggiunse alla schiena e lui e Marvin furono fuori.
Zoe era sul marciapiede in compagnia di Odell. Gli occhi fissi sull’inferno che avevano appena
lasciato. Cameron e Marvin li raggiunsero e si scambiarono un’occhiata. Nessuno disse nulla. Dietro
di loro una donna cadde mani avanti sulla soglia, coprendo con il robusto corpo buona parte di quello
spazio. Dalla sua bocca partì un raccapricciante gridolino. Un’altra donna le finì addosso e scivolò di
lato finendo per bloccare del tutto l’uscita. Poi arrivarono da dietro altre persone che finirono per
montargli sopra. La ressa alle loro spalle fece il resto, compattando sul rettangolo della porta un muro
umano.
Le persone continuavano a scappare mentre in strada le auto stridevano.
La porta mandò un secco scricchiolio, poi li vomitò fuori. I clienti del Diner cadevano, urlavano e
riprendevano a correre ancor prima di aver trovato l’equilibrio. La grande vetrina con il logo vicino
alla porta d’ingresso esplose per il lancio da dentro di uno sgabello. Atterrò sul marciapiede senza
colpire nessuno. Le schegge di vetro però non furono così generose: un bambino prese a urlare

coprendosi un occhio. Arrivò la mamma che, terrorizzata, con la testa bassa e le spalle rivolte al King,
gli si acquattò contro stringendolo a sé. Una posa che a Cameron ricordò un’indefinita fotografia di
guerra.
Le persone si tuffavano in quella nuova via d’uscita, incuranti della vetrina ridotta a una striscia di
denti affilati. Una ragazza cadde sul marciapiede con una lunga scheggia di vetro conficcata
sull’avambraccio. Inginocchiata e tremante fissava l’osceno riflesso che saliva verso l’alto. Poi lo
agguantò e con un colpo secco tirò, spruzzando sull’asfalto una mezzaluna di sangue. Dall’esile corpo
partì un urlo agghiacciante. Dietro di lei un uomo finì incastrato sul bordo basso della vetrina con una
spessa scheggia di vetro infilata nella pancia. Dalla sua bocca uscì un orribile suono gutturale che salì
di volume quando un ragazzo gli passò sopra usandolo come trampolino.
Basta… basta… pensò Cameron. Guardò i suoi amici. Tutti. Solo Zoe. Marvin sparì. Un uomo lo
aveva spinto faccia a terra e gli puntava un ginocchio sulla schiena. Cameron restava a guardare.
Quando si mosse Marvin era già lontano dal suo assalitore. Ingobbito, teneva gli occhi fissi sull’uomo
e smaltiva un fiatone ritmato più dallo spavento che dallo sforzo per la fuga.
«Cos’avete fatto?» parlò l’uomo. Gli occhi spiritati. «Che sostanza avete rilasciato?» domandò
ancora. Marvin lo guardava e non diceva una parola. Poi l’uomo lasciò Marvin per Zoe.
«Cos’è quella roba rossa? Qualcuno dica qualcosa, cazzo!»
Un’altra persona si era avvicinata all’uomo. Poi un’altra e un’altra ancora.
Cameron vide Zoe voler intervenire e poi fare marcia indietro. In quelle facce che avevano intorno
era possibile leggere un preciso epilogo. Non avrebbero mai accettato una dimostrazione pacifica
come risposta. Forse sì, ma non subito. Non lì, non ora, con l’aria così carica di elettricità.
«Ok, allora ci penso io a farvi parlare, a calci» tornò la voce dell’uomo che aveva assalito Marvin.
«Fermi! Lasciate fare alla polizia.»
I due poliziotti li stavano raggiungendo. Cameron si era quasi dimenticato di loro. Tante incredibili
cose erano successe dopo l’assalto. Cameron li guardava e tornò a valutare il colpo inferto da Zoe. Il
viso e il collo investiti da una violenta psoriasi. Lo spazio degli occhi ancora sporco. Gli erano
addosso.

Capitolo 13

Un megafono gracchiò e partì una cantilena. Cameron si girò e il giallo lo investì. Era dappertutto.
Si avvicinavano dal lato opposto della strada paralizzandola e occupandola man mano che
avanzavano. Al megafono si unirono i ripetuti colpi di clacson delle macchine ferme contro i
cartelli.
Ma questo non scoraggiò il poliziotto muscoloso che, con uno scatto, agguantò Zoe per un braccio.
Gli occhi iniettati di rosso fissi su di lei.
I Black Breathe Like You li avevano raggiunti e la voce di una ragazza salì su tutte: «Vuoi
mandarla all’ospedale come hai fatto con suo fratello Darrian?».
L’armata partì a sillabare quel nome.
Il poliziotto mollò la presa su Zoe ma non lo sguardo. Lei si ritrasse veloce e, dopo aver ripreso
fiato, si unì alle voci.
Cameron osservava gli sguardi confusi dei clienti del King.
Intanto le forze dei Black Breathe Like You stringevano ancora più la morsa sulla strada spingendo
i loro cartelli gialli contro le code di macchine. Incitavano la causa e tenevano a bada i curiosi. Tra
questi, una signora si rivolse ai poliziotti: «Agenti, diteci che sta succedendo, per la miseria!».
Una ragazza, la fronte coperta da una bandana gialla sopra occhi nocciola, abbandonò il coro per
risponderle: «Glielo dico io, signora! Questi due sono dei macellai vestiti da poliziotti. Noi siamo
qui per protestare a nome di Darrian Trayvon. Un ragazzo che hanno picchiato senza motivo una
sera mentre tornava a casa».
Zoe, che le stava di lato, la osservava affascinata.
La bandana tornò alla carica: «E sa perché? Perché era uno sporco negro. Proprio come me! Proprio
come tutti noi!».
«Stai zitta, ragazza» disse il poliziotto muscoloso. I capelli a spazzola irti sopra il rettangolo sporco
della fronte. Nemmeno la capiente sudorazione riusciva a cancellare il rosso.
«Calmi, stiamo tutti calmi» arrivò l’altro, in soccorso del collega.
La cantilena incalzava.
Dal coro, una sciarpa giallo fluo si fece avanti. «Sbirro! E se fosse successo a tuo fratello? Se in
ospedale, ora, ci fosse lui?».
Un pomodoro esplose a pochi centimetri dai piedi del poliziotto muscoloso e quello agguantò la
pistola. La puntò davanti.
«Che nessuno si muova!» urlò.

«Travis! Sei impazzito? Mettila via, cazzo. Mettila via, prima che combiniamo un casino» disse
l’altro.
La ragazza con la sciarpa giallo fluo tornò alla carica. «Oh, bravo! Ecco la tua risposta a tutto. Dai,
spara. Così ci fai il favore di finire in pensione anticipata e levarti dai coglioni.» Poi alzò il braccio
e puntò il pollice alle sue spalle. «Ah! E ricordati di sorridere.»
Dietro di lei due ragazzi in maglietta giallo senape stavano riprendendo con il cellulare e una
videocamera. Uno di loro salutò con la mano il poliziotto.
Cameron assisteva alla scena in silenzio. La ragazza vibrava di un coraggio che ai suoi occhi
rasentava la follia. Guardava Zoe, anche lei rapita da quell’energia. Lei lo ricambiò con
un’espressione di felice sorpresa e lui sorrise. Le labbra stirate dalla fermezza e la paura. Cameron
lasciò la battaglia per il viso di lei. Stanco. Con ciocche di capelli incollate sulla pelle e croste di
rosso. Bellissima. Il nome di Darrian correva nel cielo. Un uomo in giacca blu e maglietta gialla
iniziò a parlare dentro un microfono. Annunciò l’arrivo di un lungo elenco di nomi, vittime anche
loro della stessa sorte capitata a Darrian, e partì. Molti clienti del King fissavano i due poliziotti.
L’agente armato guardò il collega e abbassò la pistola. Portò mani e occhi in basso incrociando la
firma rossa lasciata dal pomodoro. Cameron, che seguiva ogni loro movimento con intensità, lo
vide rialzare la testa e fissarlo.
Perché proprio io tra tutti quelli che ci sono? tremò dentro di sé. Poi la sua testa urlò. Cosa avete
da guardare? Vi si è rivoltato il mondo addosso e ora vi state cagando sotto, eh?
Arrivò anche lo sguardo dell’altro poliziotto. Segnato dallo stupore e dalla paura, come il collega.
Uno, due, cento, li minacciava Cameron con gli occhi, potete essere quanti volete, oggi vi facciamo
a pezzi!
Era così addosso alle facce dei due poliziotti che le vedeva come fuse insieme.
Non è vero ragazzi? pensò Cameron. Lasciò i due per cercare sulla destra gli altri e non trovò
nessuno.

Capitolo 14

Gli attivisti giacevano immobili sull’asfalto. Cameron fissava i due agenti e i clienti del King che si
guardavano intorno. Poi tornò sulla gialla distesa chiedendosi se fosse una mossa coordinata. Se
anche questo facesse parte della protesta. Gli venne in mente il video di una piazza, visto tempo
prima su Youtube, di un improvviso flash mob dove tutti si erano bloccati nello stesso istante come
tante belle statuine. Poi Cameron li osservò meglio. Le loro pose erano troppo disordinate e alcuni
ammassati in modo da non riuscire a respirare bene. Che senso aveva? Si chiese.
Continuava a fissarli dando le spalle ai due poliziotti. Cercò i suoi amici. Anche loro a terra insieme
agli attivisti. Colse un movimento alle spalle ma non ci badò.
Si buttò su Zoe. Aveva gli occhi ribaltati all’indietro e la bocca aperta per metà. Provò a chiamarla
ma niente. Poi le prese le spalle e cominciò a scrollarla. Prima, piano. Poi sempre più forte. Nulla.
Non si muoveva. Urlò il suo nome. Una, due, tre volte. Silenzio. Si rialzò senza staccarle gli occhi
di dosso, alla disperata ricerca di qualcosa che rispondesse all’imperativo della vita. Niente. Chiamò
il suo nome che scivolò da qualche parte tra i corpi. Cercò gli altri. Sentì arrivare un suono ovattato,
in cui riconobbe un richiamo, e non vi prestò attenzione.
Era su Odell. Gli occhi ribaltati e la bocca aperta come Zoe e gli altri.
Anche lui.
Controllò Marvin che era finito faccia avanti sul marciapiede. Lo prese per una spalla e lo girò.
Stesso destino, con l’eccezione di graffi sulla fronte, per la caduta o forse per l’incidente di poco
prima con quell’uomo. Anche lui sembrava non respirare.
«Marv!» chiamò Cameron. «Marv, cazzo, parlami!»
Nulla.
Seguì un osceno pensiero che scacciò subito.
Si alzò. Non riusciva a staccare gli occhi da quelli di Marvin. Aveva aperto le porte al panico e il
respiro cominciò ad accelerare.
«Ragazzi… ragazzi!» disse, e dietro lo chiamarono ancora.
Nessuno di loro rispondeva. Odell… Marvin… Zoe. La sua Zoe. La Zoe che fino a un attimo prima
aveva così tanta forza in corpo da piegare il mondo.
Fece un passo indietro e trovò un ostacolo. Perse l’equilibrio e lo recuperò subito affondando l’altro
piede in qualcosa di molle. Aveva la scarpa sopra lo stomaco di uno degli attivisti e a quello stava
bene. Nessuna reazione. Spostò il piede e finì ancora sul morbido. Gli sembrava di camminare
sopra un mare di cuscini ma l’asfalto era coperto da persone.
Quel pensiero tornò e prese a germogliare.

Si guardò intorno. Era rimasto in compagnia dei due poliziotti, qualche cliente del King e un gruppo
di passanti. In quel momento Cameron strinse gli occhi come a voler mettere a fuoco qualcosa ma
non ci riuscì.
Il poliziotto più alto si stava avvicinando. Gli parlava ma Cameron non lo sentiva. Poi ci fu un
contatto fisico, leggero. Di mano sulla spalla, avrebbe detto, se solo la testa se ne fosse interessata.
Lo lasciò fare. Lui, il suo collega che ora li aveva raggiunti, e il mondo. Che facessero di lui quello
che volevano. Era così stanco che pregò fosse tutto finito lì.

Capitolo 15

Cameron fissava sopra la testa la barra rettangolare del neon. Sintonizzato sul ronzio.
In un’altra circostanza quella vibrazione lo avrebbe fatto uscire di testa, ma non oggi.
Perché era difficile che quel suono potesse salire di volume, surriscaldare la plafoniera, creare un black-out totale, far cadere la stazione di polizia nel buio assoluto e favorire una rivolta degli spacciatori lì presenti in cui avrebbero perso la vita molti poliziotti.
Difficile che follie del genere potessero ripetersi due volte nello stesso giorno.
E quindi guardava in alto senza problemi.
Come la testa, anche il corpo rispondeva allo stress delle ultime ore, soffocando ogni minuscolo accenno di pericolo e cercando stabilità. I piedi lontani, ben piantati a terra. La schiena dritta. Il sedere incollato al sedile e gomiti, avambracci e palmi pressati sul tavolo grigio. Una posa modellata intorno al blocco pavimento, sedia, tavolo.
Era stanchissimo. Ma l’idea di tornare a casa lo terrorizzava. Arrivare a domani significava lasciare l’ultimo giorno passato in compagnia dei suoi amici e iniziare ad accettare la morte. Perché di quello si trattava. Di quello la sua testa si era convinta.
Zoe. Morta.
Non era possibile. Non era giusto. Non era e basta. Non era, perché con oggi finiva il lungo silenzio. Doveva dirle che l’amava, che il suo amore riempiva tutto il mare e il suo rovescio. E forse… forse anche per lei era così. Allora lui avrebbe cercato la sua mano. Insieme agli occhi, al sorriso, i capelli e le gambe affusolate e nervose. Allora avrebbe potuto sentire cosa si prova ad affondare la testa e il corpo dentro di lei e chissà che il suo modo di immettere aria dentro ai polmoni non sarebbe cambiato. Chissà se avrebbe iniziato a vivere come mai prima.
Il ronzio rallentò. Divenne suono codificato, parola e poi frase.
Magari non sono morti, magari è temporaneo. Magari ora stanno bene e sono loro a chiedersi che fine hai fatto tu.
Brutti scherzi della testa. Mandò un singulto. Voleva gridare. Di più: voleva bere acqua.
Cos’era successo esattamente? Ripensò al King, a Zoe che sputava, all’esplosione d’isteria collettiva e all’uomo con la pancia trafitta dal vetro, domandandosi se fosse ancora lì. Il nastro dei ricordi continuava a correre sulla mezzaluna di sangue tracciata nell’asfalto, la pistola del poliziotto muscoloso e su quella cosa, alla fine, a cui non sapeva dare un nome.
Arrivò un giramento di testa. Abbassò lo sguardo sulle mani incollate al tavolo come ventose. «Perché Zoe non ci ha detto niente?» gli uscì piano dalla bocca.

Il monologo proseguì dentro la sua testa. Perché non dirci cos’avrebbe fatto? “entriamo e aspettiamo l’arrivo degli altri”, aveva detto e stop. Perché non metterli al corrente? Dopo quella chiacchierata in ospedale, quei discorsi sulla fiducia… su loro che erano la sua famiglia. Dopo che da Sal si era fatto avanti, da solo… perché?

Da quanto tempo si trovava lì? Non sapeva dirlo. Ma non era forse quello che volevano? Confonderlo, indebolirlo… favorire le condizioni affinché parlasse. Si era fin troppo abituato a quella tranquillità. Non stava andando male per essere la sua prima volta in una centrale di polizia. Come la stanza degli interrogatori annullava la sua libertà, tale regola valeva anche al contrario. Il pazzo mondo fuori sarebbe rimasto lì dov’era. Nessun pericolo. Era un conforto malato, certo. Che però in quel momento si faceva andar bene.

Poi arrivò un altro ronzio e dalla porta riapparve l’agente Hooper con in mano un bicchiere d’acqua. Un bicchiere.
Un, fottuto, bicchiere, pensò Cameron guardando l’agente. Cazzo…
Hooper si sedette. Cameron gli vide in viso una profonda stanchezza.

Amico, sarei pronto a scommettere su chi, dei due, ha avuto la giornata più di merda.

Hooper gli allungò l’acqua.
Cameron la mandò giù con un solo colpo e la bocca prese a formicolare. Dalla gola salì un’alitata di piacere. Ringraziò e lasciò il bicchiere sul tavolo.
«Ricominciamo da capo» disse Hooper riprendendo a fissarlo con i fermi occhi neri.
«Posso prima chiamare a casa?»
«Tra poco.»
Cameron mandò un piccolo sbuffo. «Eravamo lì per una dimostrazione pacifica» disse con tono serio. «Pianificata da quanto tempo?» disse Hooper. La testa infossata nelle spalle.
«Io, Marvin e Odell siamo venuti a saperlo da Zoe circa due settimane fa. Non so di preciso da quanto tempo lei avesse preso contatto con i Black Breathe Like You.»
«Che cosa vi ha detto dei suoi rapporti con loro?» Hooper incalzava e Cameron sentiva una spinta verso l’angolo. Stette al suo gioco, non aveva energie per la strategia. E poi di cosa doveva preoccuparsi visto che era innocente?
«Poco. Che li aveva incontrati, aveva parlato di Darrian e che si era fidata. E poi che aveva bisogno di fare qualcosa.»
«E voi? Nessuno di voi ha incontrato quegli attivisti prima di oggi?»
«No. Io no.»
«E gli altri?»
«Non che io sappia.»

Era strano come le parole gli venissero fuori spedite, come avesse voglia di parlare. Effetto dell’adrenalina che scendeva o delle capacità di Hooper? Non volle darsi una risposta.
«E gli altri due tuoi amici come hanno preso la notizia?»
«Non lo so… eravamo… siamo molto legati, ma…» e si fermò.

Hooper mandò un mugolio.
«Non ne abbiamo parlato. L’abbiamo accettato e basta.»
«E arriviamo a oggi. Zoe pedinava i due agenti, Queliz e Leman, e aveva individuato la loro pausa del mercoledì mattina al King Diner. Vado bene?»
«Sì.»
Hooper spostò con il dorso della mano il bicchiere. «Vi appostate con l’auto. Aspettate l’arrivo dei due agenti, entrate al King Diner e li imbrattate con del non meglio specificato liquido rosso.» «Zoe! È stata lei a farlo» disse Cameron, pentendosi subito.
«Cos’è quel liquido?» domandò freddo Hooper.
«Non lo so. Zoe non ci aveva detto nulla dell’idea di sparare un liquido.»
La pausa che seguì, della durata di una manciata di secondi, lo espose all’arrivo di una risata isterica. La sedia sembrava prendere fuoco. Scattò in piedi e prese a gesticolare.
«Zoe non avrebbe mai fatto del male a nessuno. È successo un macello perché qualcuno ha urlato ai terroristi e tutti hanno dato di matto!»
Hooper abbassò di poco la testa e Cameron tornò a sedere. Si aggiustò sul posto e portò lo sguardo sul bianco delle tempie lì davanti.
«Avete usato del sangue finto. Quello dei professionisti che lavorano nel mondo dello spettacolo» disse l’agente fissandolo.
«C-come? Che?» disse Cameron avvertendo lo scatto del suo sopracciglio sinistro.
«Lo abbiamo scoperto dalla borraccia che aveva in tasca».
«Lo sapevo che non avrebbe potuto fare del male a nessuno…»
«Aiutaci a capire cosa è successo. Hai notato qualcosa di strano? Un particolare comportamento degli attivisti? Qualcuno ha detto qualcosa che ti ha colpito?»
«Io… dopo quello spruzzo rosso è scoppiato il delirio. La gente è impazzita e ha iniziato a correre fuori. Poi gli attivisti sono arrivati e urlavano, protestavano… facevano casino come in tutte le azioni di protesta, credo. Io ero concentrato sui due poliziotti. Anzi… probabilmente i Black Breathe ci hanno salvati» disse Cameron. Un po’ perché lo pensava sul serio e un po’ per farlo sentire responsabile.
«Siete coinvolti in quello che è successo dopo? Magari d’accordo con loro?»
La dura virata di Hooper lo stupì.

«Noi? Ma se ci siamo finiti in mezzo pure noi e loro» disse senza riuscire a trattenere un balbettio. Gli occhi di Hooper fissi su di lui.
«Non so niente. Non posso dirle qualcosa che non so.»
Cameron notò una reazione che gli fece pensare di aver vinto il testa a testa. O almeno di aver venduto cara la pelle. Provò una punta di orgoglio, anche se la voce aveva tremato per tutto il tempo.

«E ora» prese fiato Cameron, «ora la prego di dirmi come stanno i miei amici.»

Capitolo 16

«Morti.»
Cameron sentì la testa partire. Lasciare un appiglio. La mente che si appannava.
Dalla bocca di Hooper uscirono le parole “incidente”, “causa ignota” e “testimonianza”. Poi lo
lasciò andare. La strada insieme fino alla porta. Affacciati sul parcheggio, nella frescura della sera,
gli raccomandò di restare a disposizione.
«Hai bisogno che ti accompagni?» disse Hooper fermo sulla porta.
«No, grazie» disse Cameron. Non vedeva l’ora di lasciarsi per sempre quella faccia alle spalle.
«Fai un buon rientro a casa, ragazzo.»
Cameron lo guardò senza dire nulla. Le reazioni al minimo. Poi Hooper attraversò la porta e lui si
incamminò. Voleva solo buttarsi nelle braccia dei suoi, e fino a quel momento avrebbe schivato
ogni possibile interazione umana. Si infilò la mano in tasca, tirò fuori il telefono e digitò il numero
di casa.
Si era fermato e non se n’era accorto. Ogni movimento comportava una grande fatica. Da fuori non
doveva essere un bello spettacolo. Stanco, assente, la faccia che tradiva lo sforzo immenso per
tenere il cellulare vicino all’orecchio. Lì, immobile, con il telefono che continuava a squillare,
Cameron pensò avrebbe attirato l’attenzione di qualcuno. L’arrivo di un buon samaritano. Nessuno
in vista. Chiuse la chiamata e compose il numero di Zoe. La sua Zoe. La Zoe che gli avevano detto
essere morta. La sua voce graffiata che non avrebbe risentito mai più.
Il cellulare continuava a squillare nella mano tremante.
Riprovo dopo, adesso devo sedermi, disse alla sua testa che continuava a vagare chissà dove.
Una palpabile solitudine.
Le panchine di Fort Millon Park erano di strada. Raggiunse il parco, ne puntò una lunga tre persone
e lì si accasciò. Partì uno sbadiglio che suonò come un ululato alla luna. Quella sera non era piena
ma ci andava vicino.
Con le labbra produsse una serie di schiocchi bavosi. «Dai, tra poco siamo a casa» sussurrò.
Il torace scattò in avanti e Cameron si abbandonò a un pianto soffocato. Senza fazzoletti prese ad
asciugarsi gli occhi con la manica della felpa. Una, due, tre volte. Poi si arrese e lasciò uscire tutto.
Le lacrime e i singulti portarono a riva il pensiero di non essere ancora al sicuro, con casa sua
lontana e la strada disseminata di trappole.
Passò di nuovo la manica della felpa sul viso. Il tessuto inzuppato di freddo gli strappò una smorfia.

Appoggiò la schiena sulla panchina e guardò il cielo. Puntini luminosi lo raggiungevano dagli spazi
tra le fronde degli alberi. Notò la completa assenza di nuvole. Un’osservazione che lo fece sentire
stupido senza però fargli allentare la presa su quella futilità.
Poi, come per compensazione a tutta quella sballata emotività, arrivò una domanda.
Chi poteva aver ucciso i suoi amici? E in quel momento si pentì di non aver parlato di più con
Hooper. Di essersi perso nello shock. Tutti quei morti… Com’era possibile? Come avevano fatto?
Si sforzò di ricordare se gli avesse detto qualcosa su come la polizia si stava muovendo o altri
dettagli e gli tornò in mente il saluto sulla porta. Fai un buon rientro a casa, ragazzo.
Non aveva colto sarcasmo. Ma che motivo aveva Hooper di prenderlo in giro per la strigliata che lo
attendeva a casa?
Abbandonò la panchina. Lasciatosi alle spalle il verde, stimò il tempo che lo separava da casa e
pensò a cosa avrebbe fatto una volta arrivato. Si chiese se i suoi fossero già al corrente di quanto
accaduto. Se l’agente Hooper li avesse avvertiti, e il suo ventre parlò. Sbiascicò Un chiaro conto
alla rovescia. Più in alto una leggera sudorazione. Cameron portò la mano destra sotto la maglietta.
Massaggiò lo stomaco caricando su quel gesto tutto l’amore possibile, ma lui non gradì. Le fitte
aumentavano e casa sua era troppo lontana. Corse in direzione del bar più vicino pregando di
riuscire a tenerla. Entrò al Dizzy. Prendeva d’assalto un altro locale, pensò. Richiamò l’attenzione
dell’uomo dietro al bancone con un guaito. Portò una mano sulla pancia, strinse i denti e scrollò la
testa. L’uomo gli indicò la porta sotto il rettangolo di luce bianca del televisore. Cameron chiuse gli
occhi, abbassò la testa e scattò. La voce del barista che gli ricordava poi di dover prendere qualcosa.
Lo stacco dal buio alle bianchissime mattonelle del bagno lo accecò. Il corpo riconobbe quello
spazio e il conto alla rovescia precipitò. I polpastrelli litigavano con la patta. Pensò se la sarebbe
fatta addosso. Toccò la tavoletta e si liberò all’istante. Lo sguardo perso sul quadrato del soffitto.
Tornò a passo lento nel locale. Tutti i clienti erano in piedi e fissavano la televisione. Erano così
anche prima, ricordò. Un particolare che per la fretta gli era sfuggito.
Sistemò la cintura che non aveva stretto abbastanza e si unì a loro. Lo schermo mandava il
telegiornale.
Una conduttrice bionda parlava circondata da altri piccoli mezzibusti. Nonostante cercasse di
mantenere tutta la compostezza richiesta dal mestiere, era possibile leggerle in viso una forte
agitazione. Sotto di lei una striscia rossa riportava numeri, località e frasi come “massima allerta” e
“pericolo”. Pensò a Hooper.
Poi l’immagine divenne tutta nera. Non proprio. Cameron osservò meglio e riconobbe un colore più
vicino al marrone scuro. Realizzò di vedere una ripresa aerea che venne di colpo sottratta agli
spettatori. Tornò la conduttrice con qualche scusa. Seguirono una carrellata di collegamenti con

Washington, New York, Los Angeles, ma anche con Londra, il Vaticano, Parigi e Tokyo. Gli inviati
frenavano una certa agitazione. Cameron si girò. Gli occhi dei clienti passavano da lui alla
televisione, indecisi su dove rimanere. Lo investì un déjà-vu. Il ritorno della sensazione provata
davanti al King. Di fronte ai Black Breathe Like You, Zoe, Marvin e Odell distesi a terra. Stava
mettendo a fuoco. Lui e i clienti del Dizzy, lì davanti.
Lui, la sua pelle, e loro. E tra quegli uomini che lo fissavano, la bianca luce dello schermo e la voce
della conduttrice che veniva fatta salire di volume, si paralizzò. Con sconcertante immediatezza
capì come non fosse la solita morsa del razzismo, la solita paura. Gocce cadevano sul pavimento del
Dizzy. Non era la solita convivenza, oh, no. Qualcosa si era unito a loro dopo la risalita di antiche e
abissali correnti.
Ripensò a quel saluto di Hooper sulla porta.

Parte II

Capitolo 1

Era uno di quei giorni in cui i contorni degli alberi bruciavano sull’azzurro del cielo e le ombre bucavano il terreno. Dal basso saliva il bagnato aroma dell’erba tagliata.
Aveva quasi finito. Mancava la parte vicino alla staccionata dove cresceva sempre più alta. Il Dottore, così lo chiamava Jusen, anche se lui non voleva, amava in modo particolare tenere il prato in ordine. «Ora vediamo se ci possiamo giocare a calcio» commentava in modo bonario a volte, prima di farsi un giro e controllare quel lavoro. Jusen non si sarebbe stupito di vederlo un giorno accovacciato con in mano un pettine e delle forbici.

Il Dottore metteva una grande cura nei lavori di casa. L’elenco andava dal raccogliere le foglie cadute a tagliare il prato, mettere in ordine i vecchi utensili contadini e sistemare la staccionata delle stalle ormai inutilizzate. Pulire con la sistola le sedie del giardino oppure innaffiare i grandi vasi con i limoni che illuminavano tutto il perimetro della casa grande. Più volte, nei primi tempi, Jusen si era proposto di poter compiere quelle incombenze da solo e nel fisso pacato rifiuto del Dottore vedeva (mai si sarebbe permesso di dirlo) un comportamento esagerato. Con il passare del tempo lo aveva accettato. Quel modo di fare nascondeva l’entusiasmo per la vicinanza di un amico, se non un figlio, ora che la sua famiglia viveva tutta lontano, con cui poter condividere quelle che lui chiamava “le gioie della terra”. A questo spirito, si univa anche il retaggio della sua intensa attività di medico che aveva tenuto per mano più di una generazione del paese.

Jusen aveva appena finito di domare quella verde striscia ribelle quando il rombo sotto di lui si fece soffocato e il trattorino prese a singhiozzare. Girò la chiave nel quadro e l’agonia finì. Poi alzò la leva che regolava l’altezza della cupola e scese.
«Che è successo?»

Jusen non l’aveva sentita arrivare. Marta lo aveva raggiunto e rivolgeva uno sguardo interrogativo al trattorino.
«Qualcosa si deve essere incastrato sotto e ha bloccato la lama.»
Jusen si distese accanto al trattorino, schiena a terra.

«Stai attento, mi raccomando.»
Le sorrise. Poi, con il braccio sul lato del trattorino, agguantò il bordo della cupola e spinse in alto. L’altro pressava sull’erba a contrappunto.
«Non è meglio chiamare il dottore?» disse Marta con voce assente, rapita da quel movimento. Ruotine in aria, il trattorino mostrava le sue intimità meccaniche.

«Forse un ramo» disse Jusen.
Cambiò braccio e allungò l’altro sotto la cupola.
Marta, con in mano la bottiglia d’acqua che aveva preparato per lui, si sporse in avanti per vedere seguire meglio.
Jusen ci aveva preso e lanciò di lato un ramo. Gli era sfuggito, a volte capitava.
Poi puntò a terra la mano nascosta dall’ombra del trattorino. L’altra iniziò lenta a scendere, finché la cupola non tornò a lisciare l’erba. Jusen scivolò di lato, tornò in piedi e si passò il braccio destro sulla fronte. I bordi del collo luccicavano.
«Fatto» disse, sorridendole ancora, «posso bere per favore?»
«Jusen… se avessi una ventina d’anni di meno ci farei un pensierino su di te.»
Marta, la signora tuttofare che lavorava da sempre per il dottore e “che faceva andare avanti la baracca”, come spesso diceva lui, gli porse la bottiglia.
«Grazie.»
«Viene voglia di fare un pic-nic» disse Marta guardando il prato.
«Che splendida giornata, eh?» disse Jusen prima di comprimere le larghe labbra carnose contro il piccolo cerchio di plastica. La bottiglia iniziò a sgonfiarsi e scrocchiare.
Assaporava quel refrigerio e portava lo sguardo alla valle. Dalla sua posizione Villa Vallini offriva un ampio panorama. Nonostante la distanza, con la luce di quel giorno era possibile individuare a occhio nudo la precisa ubicazione dei tratti caratteristici di Borgosanto. La ragnatela di case e vicoli. Le mura medievali con la fatiscente sporgenza della fortezza e le due porte unite dal corso. Il campanile e il duomo che affacciavano sulla piazza.
Distante dal centro storico era facile individuare lo stadio, il ponte che dava verso la zona industriale (unico collegamento con il mondo esterno insieme alla superstrada piena di buche ed eterni rallentamenti per lavori) e la diga che nell’anno corrente aveva fatto notizia per il cedimento strutturale dovuto alle ingenti piogge sempre più frequenti.
Poi era un perdersi nell’abbraccio della verde Toscana intorno. Da quella posizione la leggera foschia donava a quel piccolo presepe di sedicimila anime una bellezza eterea.
«Proprio bella» disse Marta.
«Ah, i miei ragazzi!» La voce del dottore squillò alle loro spalle.
Marta e Jusen si girarono.
Anche nei lavori più umili il dottore teneva sempre quella strana divisa. Bello impettito, sfoggiava una camicia con iniziali infilata a fatica dentro gli stretti jeans corti sulle caviglie. Dal secondo bottone, sotto gli orgogliosi riccioli bianchi che prendevano aria, penzolavano gli inseparabili occhiali da sole Ray-Ban verdi a specchio. I piccoli piedi calzavano sformati mocassini di camoscio marrone.

La disinvoltura con cui portava quell’abbigliamento distante dalla vita di campagna lo rendeva un uomo duttile per molti scenari. Capace di lasciare la potatura per entrare subito in una riunione di colletti bianchi che avrebbe ricambiato volentieri la sua affabulatoria stretta di mano.
«Guardate qua che bellezza, oh!» disse il dottore affondando il naso a spiovente sui petali di una rosa. Un incontro che aveva del goffo.

La leggera abbronzatura gli donava un’aria esotica, da avventuriero improvvisato.
Poi con una mano accarezzò la fronte rugosa, lisciò i bianchi capelli ondulati e chiuse le dita intorno al folto ricciolo sotto il grande lobo dell’orecchio destro. Un gesto abitudinario che accompagnava lo stato di contemplazione.
«Che bella, dottore» disse Marta.
La rosa, la bassa statura, il fisico che si rilassava languido a quella vicina soglia degli ottanta e l’espressione giocosa lo facevano assomigliare a un putto in là con gli anni.
«Bellissima» disse il dottore. I piccoli occhi azzurri brillavano della seducente ingenua spinta passionale che Marta e Jusen conoscevano bene.
«Dottore!» sbottò Marta.
La maniche, arricciate sulla pelle liscia come pellicola da cucina, rivelavano sull’avambraccio sinistro strisce rosse discontinue. Da una di queste, un piccolo rivolo di sangue aveva solcato in diagonale la parte esterna del braccio. Il rosso si mimetizzava sulla pelle abbronzata.
Sul viso del dottore apparve l’espressione stupita di un bambino.
«Guardi cosa ha fatto al braccio!»
Lui sbatté le palpebre, poi si concentrò nel punto indicato. «Ah! Sono scivolato» disse in tono contrito, «sono finito addosso al cespuglio. Ho rotto due rami.»
Poi lasciò cadere una lenza di saliva dalla bocca all’avambraccio e lo massaggiò. Una mossa che Marta commentò con un impercettibile sospiro.
Il dottore prestò a quell’azione l’impegno di un attimo, e tornò sul fiore.
«Mettiamola in un bel vaso, lì nell’ingresso.»
«Sì, dottore. Ci penso io.»
«Attenta alle spine.»
Lei lo fulminò con lo sguardo e Jusen soffocò una risata. Il dottore, tranquillo. In pace.
«Venga dentro che disinfettiamo quei tagli.»
«Cosa farei senza di te, Marta?»
Lei si calmò. Il dottore riusciva a scamparla spesso con quella sua irresistibile combinazione di ruffianeria e giovane energia.

«Ah, ma come si sta bene, oggi» disse respirando a pieni polmoni e portandosi i palmi delle mani sul petto. Poi lasciò il cielo per Jusen. «Jusen! Prima ha chiamato Mocassino. É pronta. Hai finito con il prato?»
«Sì.»

«Bene, bravo. Dopo controlliamo.» Liberò gli occhiali da sole dal bottone e li inforcò. «Passiamo anche a prendere il giornale.»
«Non fate tardi che ho cucinato i porcini freschi di Piero» intervenne Marta.
«Uh, buoni! Sentito, Jusen? Metti subito a posto il trattorino e andiamo.»

Il dottore raddrizzò la schiena rischiando di far uscire la camicia dalla cintura.
«Jusen, dammi quella bottiglia che la porto dentro» disse Marta aggrottando la fronte. «Ah! E prendete il pane che è finito. Mi raccomando, non vi scordate.»
Sempre accigliata, aggiunse che si affidava a Jusen e lui ricambiò con un sorriso.

Capitolo 2

I garriti delle rondini rimbalzavano da una parte all’altra di corso Settembre tappezzato da un intreccio disordinato di ombre.
A metà del tragitto che li separava dalla piazza, Jusen e il dottore si erano fermati al negozio di scarpe a parlare con Giacomo, detto “Fumino” (così chiamato per la sua permalosità). In piedi, schiena appoggiata al muro vicino alla vetrina che dava sul corso, Giacomo accompagnava i ripetuti tiri di sigaretta con una smorfia diventata nel tempo un tratto caratteristico.

Il suo repertorio andava dalle lamentele per il calo delle vendite alle punzecchiature sulla pensione del dottore. Quel giorno non faceva eccezione. Li salutò e ripresero.
Incrociarono una coppia di anziani e una donna con due golden retriever al guinzaglio che la strattonavano per entrare in un vicolo.

Tutta lì, la conta dei borghesi.
«Andiamo a salutare Rita» aveva detto il dottore.
Raggiunsero Gerasio, ritenuto dal dottore l’unico bar di Borgosanto. Sottolineava spesso l’assurdità di un piccolo paese privo di un bar nella piazza e lo sconforto per un intero lato di questa occupato da negozi di vestiti.
«Dottore, buongiorno» li salutò Rita da dietro il bancone, abbandonando il lavandino.
«Ciao, Giulio.»
Jusen le rivolse un sorriso. Ormai non ci faceva più caso.
«Jusen! Non Giulio, Rita» disse il dottore con un dolce sorriso. «Come va, Rita?»
«Eh, Dottore… come va? Mattinata moscia» disse Rita, portando lo sguardo e le mani sull’asciugatura di una tazzina. «L’anno scorso di questo periodo cominciavano a girare i turisti… ora manco uno. Sempre peggio, Dottore, sempre peggio.» Appoggiò la tazzina sulla destra, vicino alle altre, e il panno giallo sul bordo del lavandino. Strofinò le mani e le portò sul bancone.
«Poi ci si mette pure il comune con questi divieti notturni… qui dopo le undici sembra un cimitero.» Buttò un occhio sulla porta. «Così ci ammazzano.» Tornò su di loro. «Ma non intristiamoci. Caffè?» «Sì, due.»
Jusen si guardò intorno: esclusi lui e il dottore in quel pieno della mattina il bar contava di un unico cliente incollato a quelle macchinette spilla soldi e prosciuga disgraziati, come aveva sentito una volta chiamarle il dottore. Una vera tristezza per quello storico locale con quasi cent’anni di attività alle spalle.
Le tazzine tintinnarono sul bancone.
«Mi ci metti anche un goccio di Varnelli?»

«Già messo, Dottore. Vuole anche un pezzettino della mia crostata?»
«Sei un tesoro, ma no, grazie. Che sennò mi rovino il pranzo e dopo chi la sente Marta.»
«Mi saluti quella coccona.»
Jusen prese a gustarsi il caffè mentre l’altro lo seccò di colpo. Poi il dottore guardò l’orologio, pagò, e salutò Rita con un complimento al suo nuovo taglio. Il matrimonio tra lei e l’eccentricità non conosceva crisi: era cosa nota e anche ben promossa in paese.
Rita avvicinò una mano ai capelli, attenta a non toccarli troppo. I suoi tagli pirotecnici (a volte al limite dell’equilibrio) abbinati ai vistosi rossetti erano così famosi a Borgosanto che si diceva potessero predire il tempo.
«Grazie, Dottore» civettò.
Si salutarono e i due tornarono sul corso.
«Mi dispiace che tu senta certe cose e veda corso Settembre così.»
L’idea che Jusen si era fatto nel tempo sul dottore era quella di una persona che vedeva il bicchiere mezzo pieno ma anche che avrebbe chiesto in giro chi fosse stato a lasciare lì quell’acqua. Se c’era una cosa che proprio non sopportava era lo spreco. E Borgosanto, secondo lui, zampillava di talenti non valorizzati. L’Italia seguiva subito dietro e accendeva il nastro della retorica.
Il dottore aveva una chiara visione mossa da forte dispiacere che, attento, ma non troppo quanto gli piaceva pensare, non mancava di riportare. La vita di paese era sparita, soppiantata dal consolidarsi della frequentazione delle realtà americane dei centri commerciali. Le aziende storiche non erano riuscite a mantenere certi standard di competitività e quasi tutte erano fallite. I ragazzi volavano dall’altra parte del mondo per cercare lavoro e la politica che “bah!”, come diceva spesso. Il risultato era una città fantasma con il centro storico ingrigito per le serrande abbassate, negozi di vestiti quasi sempre vuoti e anziani ed extracomunitari malvisti dai borghesi.
Rimanevano le carte dell’ottima ristorazione, lo stereotipo del toscano giullare che fa tanta presa sugli stranieri e una natura travolgente che incantava e chiamava a sé il cuore.
«Sai qual è la grande trappola, Jusen?» gli aveva domandato una volta il dottore di colpo, un giorno, non ricordava in quale momento. «Che siamo nati in mezzo a tanta e troppa bellezza. La diamo per scontata e campiamo di rendita» continuò con gli occhi che sembravano spaziare su chissà quale panorama desolante, finché non si fissarono in un punto. «Questo paese sembra una bella donna che sospira sulla foto di quando era ragazza ricordando quanto tutti la corteggiavano.»
E come dargli torto, pensava Jusen. Lui considerava l’Italia bellissima. Gli italiani meno, come purtroppo aveva scoperto sulla sua pelle. Quando il dottore vedeva quell’ombra nel suo viso correva ai ripari caricandolo di attenzioni. Una compensazione disperata in cui Jusen scorgeva sempre la sua genuina generosità, e si sentiva fortunato.

Sentirono un gran vociare. Le risate e chiacchiere degli studenti liberi dalla scuola frizzavano in aria. Jusen li osservava mentre dall’altro lato del corso invadevano la piazza. Prima che potessero incrociarli, lui e il dottore entrarono in cartoleria.
Superarono gli scaffali con il materiale per la scuola e i giocattoli e arrivarono in fondo, ai quotidiani. Sopra i giornali parcheggiati a lisca di pesce, l’edicolante li salutò.

«Buongiorno, Dottore»
«Buondì, Mario.» Poi il dottore si rivolse all’anziano seduto vicino all’espositore verticale delle riviste generaliste. Calzava un largo basco marrone. «Professore…»
Jusen notò che c’era più gente lì che da Rita. Di lato, accanto alla parete dei giocattoli, un bambino mostrava con insistenza al padre una voluminosa custodia di plastica. Vicino al banco dei giornali sostavano seduti, in una posa più da frequentatori di biblioteche che da consueti clienti di passaggio, due anziani. Quello che il dottore e tutti in paese chiamavano il “professore”, non per titoli effettivi ma per l’irrefrenabile propensione a dire sempre la sua su tutto, e un altro che da fuori dava l’impressione di vestire i panni dell’allievo.
I due fissavano Jusen.
La mano di Mario si allungò sulla sfilza di carta e tirò via una copia del solito giornale letto dal dottore. Lisciò la piegatura e glielo porse.
«Ecco a lei, Dottore.»
«Grazie, Mario.»
«Ho letto che hanno stimato una percentuale di morti vicina al 98 per cento» disse l’anziano che chiamavano il professore, lo sguardo fisso sul giornale che il dottore aveva appena messo sottobraccio.
Intervenne l’altro che gli stava vicino: «Pare che siano partiti altri colpi isolati dopo il Big show, i piccoli show…»
«Big Shot! Non Big show» lo corresse il professore «che nome assurdo hanno dato alla tragedia che vi è capitata, ragazzo…» continuò guardando Jusen.
«Dicono…» riprese parola l’altro «Dicono che quelle morti isolate vengono spacciate come legate a quel… quel Big Shot, ma che in realtà… sembra non essere così…» e finita la frase prese un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni marroni scuro e se lo passò sul lato destro della bocca.
«Dicono, dicono, e intanto è passato un mese e nessuno sa niente!» tornò il professore. «Fanno tanta fatica a dire che hanno la situazione sotto controllo… e sai perché?» la voce si era fatta più impostata. «Per politica. È una tragedia globale. Hai presente, solo per dirne una, su quanta manodopera di colore si regge l’economia americana?»

E al suono della parola “economia”, l’altro compagno di salotto partì con un deciso e ripetuto su e giù della testa.
Il professore puntò Jusen: «Tu che ne pensi ragazzo?».
Jusen restò zitto.

«Dottore!» irruppe l’altro anziano. «Dottore, lei che è dottore e ha studiato, che ne pensa? Il Big Shot è di origine naturale? Alcuni parlano di un problema genetico, altri di un avvelenamento. E poi tirano fuori paroloni che non ci si capisce niente. Nessuna ferita o segno sui corpi… tutti a terra come tante belle addormentate. Lei che ne pensa?» prese di nuovo a pulirsi la bocca con il fazzoletto.

«Non lo so» rispose il dottore. «Ho molta paura.»
Jusen assisteva e intanto ripeteva a se stesso quanto quella cosa lo perseguitasse. Non c’era un momento della giornata in cui il Big Shot non lo chiamasse e ora ci si mettevano pure loro. Per questo stava benissimo su in villa. In paese era una costante fatica. Un continuo schivare la curiosità degli altri. E a volte, come succedeva adesso con il suo riflesso nello specchio dentro la cartoleria, finiva per fissare il suo viso e pensare a come il Big Shot ci avesse passato sopra una nuova mano di nero. «Ma si sarà fatto un’idea di cosa è capitato a questi disgraziati?» incalzò l’anziano.
«Signori, noi andiamo» e Jusen lesse nel viso del dottore un certo sollievo. «Ci aspettano i funghi porcini, a casa.»
Ma quell’uscita non suscitò alcun interesse. I due mastini continuavano a fissarli.
«Bene, noi andiamo. Ci vediamo» disse a voce alta il dottore ricambiato solo da Mario.
Jusen partecipò con un moscio arrivederci e presero per l’uscita.
Alle loro spalle il professore riprese una delle sue lezioni.

Capitolo 3

Salutarono di nuovo Giacomo, fermo nell’esatta posizione in cui lo avevano lasciato, poi superarono l’arco di Porta del Giglio. Lì oltre, accanto alle mura, alcuni studenti avevano deciso di ritardare il loro rientro a casa occupando due panchine.
Jusen e il dottore pestarono la prima striscia pedonale quando arrivarono un fischio seguito da un “Ehi, tu!”.

Due ragazzi e una ragazza li avevano raggiunti. Il gruppo dietro seguiva i tre con lo sguardo mentre uno zaino appoggiato a una gamba della panchina mandava un pezzo rap ad alto volume.
«Cazzo che roba!» disse il più alto dei tre. «Ce ne abbiamo uno qui! Dai, raga!»
La visiera del cappellino svettava sulla fronte esibendo un ciuffo di capelli biondo ossigenato. Vestiva una t-shirt bianca di un paio di taglie più grande rincalzata alla bell’e meglio dentro i jeans. Ai piedi scarpe da ginnastica gonfie come canotti.

«Nero! Facciamoci un selfie! Anche un video! Cazzo che bomba, bro!» disse sempre lui.
Dal gruppetto dietro partirono degli applausi, fischi e incitamenti.
«Ma è una bestia!» commentò la ragazza sgranando gli occhi.
«Signor Vallini, come sta? Ce la fa per favore una foto con il suo amico?» il ragazzo biondo aveva tirato fuori il cellulare e dal suo sguardo era palese come non avesse alcuna intenzione di conoscere le risposte a quelle domande. I suoi occhi raffreddavano tutta la cortesia della formalità.

«Ragazzi, non possiamo restare, dobbiamo andare» disse il dottore.
«Una foto, su. Facciamo in un attimo» insisteva il biondo.
Jusen lesse nel viso del dottore un chiaro fastidio. Si capiva che li conosceva. Lui sapeva che il dottore aveva lavorato con le scuole per le visite mediche e le attività sportive, ma nulla di più. Non gli sembrava fosse tranquillo.
«Metti via quel cellulare.» E il tono del dottore fugò a Jusen ogni dubbio.
«Oh, dai!» supplicò stucchevole il biondo.
«Che tristezza vedere come non sei cambiato di una virgola» disse il dottore «Come sta il tuo amico, Fabbri?»
L’espressione sul viso del ragazzo cambiò.
«Doc, ancora con quella storia? Guardi che è stato un incidente.»
«Sì, intanto però quello che si è dovuto fare tutta un’estate con il gesso al braccio non sei stato tu. E se lui ti è ancora amico, fossi in te mi guarderei dal padre.»
Il ragazzo lo fissò immobile. Gli altri due che gli stavano vicino alzavano le mani e facevano spallucce al loro gruppo di amici dietro.

«Doc, facci sta foto e non rompere» disse il biondo. Poi portò gli occhi e le dita sul cellulare: «Dai, raga, bomba! Chissà quanti like ci facciamo! Vedi che divento famoso!».
«Jusen, andiamo via» disse il dottore.
«Ma che culo hai avuto a non morire?» disse con un’espressione assente l’altro ragazzo che era al fianco del biondo. I folti riccioli scompigliati contrastavano tutta l’imperturbabilità del blocco sotto. Vestiva una slavata camicia a quadri rossa e nera, diventata grigia e quasi rosa, e logore Converse. Gli occhi nascosti dietro neri occhiali da sole spessi come una generosa barretta di cioccolato.

Jusen era immobile. Fermo a valle in attesa che la valanga lo colpisse. Non sapeva interagire con quel fuoco incrociato.
Poi il dottore arrivò vicino al viso del ragazzo biondo che alzò di scatto la testa dal cellulare. «Ho detto andate via.»

«Dai, faccio una foto al tuo nero e ci leviamo.»
«Andate via!»
«Dai, oh. Non me la menare» disse il biondo scocciato. Poi il ragazzo agguantò Jusen per un braccio. L’iPhone svettava in alto pronto a immortalare. Il dottore glielo strappò dalla mano.
«Ho detto di no!»
Il biondo esplose: «Ridammelo! Ridammelo subito!».
La ragazza e il ricciolo assistevano alla scena immobili.
«No!» urlò il dottore.
Teste sbucavano dalle finestre delle case.
Il biondo si gettò sul dottore. Lui lo schivò e il ragazzo cadde, con il cappello che saltò via lasciando liberi tutti i capelli gialli. Continuò a ringhiare. «Se non me lo dai ti spacco la faccia, hai capito? Lo faccio. Dammi il mio cellulare!»
«Signore, glielo dia» disse la ragazzina con un tono calmo che tradiva una cupa preoccupazione. Le piccole dita strette intorno alla visiera che aveva appena recuperato da terra.
Il biondo scattò in piedi ansimante e rosso in faccia. Strappò il cappello dalle mani della ragazza e la sua bocca iniziò a deformarsi. «Dammi il mio cellulare!»
Il gruppo di ragazzi aveva lasciato la panchina e si era ora fatto più vicino. Uno di loro aveva portato con sé lo zaino-stereo; la musica continuava a martellare.
Il dottore lanciò un’occhiata a Jusen. Lui ricambiò smarrito. Poi seguì con gli occhi il volo del cellulare che si schiantò a terra.
Il ragazzo lanciò un urlo.
Il telefono mandò un rumore sordo e scattò di lato iniziando a compiere veloci giri su se stesso.

Trovò le mani del proprietario che, in ginocchio, viola in viso, lo stritolava. Alzò gli occhi sul dottore. «Che cazzo hai fatto! Che cazzo hai fatto!» disse, aggiungendo una lunga fila di bestemmie ben scandite. Poi di colpo si alzò, cadde e tornò di nuovo in piedi. «Oddio, oddio, lo schermo è tutto rotto…» sussurrava e fremeva. Tremava. Trafficò una combinazione di tasti. «Non si accende, cazzo! Non succede niente!»

Si girò a guardare gli amici che aveva vicino: «Lo avete visto tutti!» sbraitava roteando in aria le braccia. «Mi ha rotto il cellulare! Mille euro di cellulare, cazzo!» e tornò a guardare il dottore. «Ora me lo ripaghi, ora ti denuncio, chiamo i carabinieri e mio padre. Ti faccio il culo, cazzo!» disse e sfogò una bestemmia.

Jusen lo osservava: il collo tirato e gli occhi rossi sbarrati. Sembrava un animale rabbioso. Jusen spostò lo sguardo sul dottore e non lo riconobbe.
Impettito, con lo sguardo fermo sul ragazzo biondo, sembrava dimostrare una ventina di anni in meno. «Chiama chi ti pare» disse il dottore fissando quella furia. Jusen registrò un tono che non gli aveva mai sentito.

Il biondo muto.
«Però fallo subito, ragazzino» e si interruppe. «Altrimenti potrai raccontare cosa si prova a vedere un buono che si incazza sul serio.»
Seguì altro silenzio.
Le facce dei tre ragazzi ferme. Lo scontro si era spostato dal numero degli anni a un altro terreno. Più selvaggio, più antico e molto, molto più pericoloso.
«Ora io e il mio amico andiamo via e mi aspetto che lo stesso facciate voi.»